Anno d’uscita: 1992
Sito web: https://aliceinchains.com/
1992: il panorama mondiale musicale è in piena metamorfosi. L’anno precedente album come “Nevermind” dei Nirvana, “Ten” dei Pearl Jam e “Blood Sugar Sex Magik” dei RHCP, hanno definitivamente sdoganato in termini di vendite tutto quel movimento Alternative Rock statunitense che da metà Anni Ottanta cercava di proporsi ed imporsi alle nuove generazioni. È con l’inizio degli Anni Novanta che la famigerata “Generazione X” assimila, metabolizza e vive in prima persona tutto questo nuovo movimento. D’un tratto tutto cambia, via gel, robe firmate, facce pulite ed avanti con barbe incolte, capelli spettinati, camicioni di flanella a quadri, eskimo, anfibi, ecc.. A tutto ciò fu dato un nome, “Grunge”, quasi un etichetta, anche se non condivido il voler catalogare per forza un movimento musicale e generazionale, trattiamolo citandolo con questo nome senza fare tante storie.
Eh già.., il Grunge!
Dopo le uscite menzionate in precedenza, eccezion fatta per i RHCP che proponevano un altro genere musicale, ma che si ritrovarono nel mainstream proprio a cavallo di quel periodo, vi fu un album che in quel 1992 segnò profondamente tutto quel movimento generazionale, affermandosi nel tempo come capolavoro del genere e non solo, questo è “Dirt” degli Alice In Chains pubblicato il 29 settembre di quell’anno.
Questa fu una release figlia di un percorso pesante e travagliato, come le liriche che Gerry Cantrell (guitar hero tra i migliori della sua generazione) e Layne Staley (vocalist raro in quanto a carisma e bravura, con un registro vocale pazzesco) raccontano in questa loro seconda fatica. Ed è proprio la tensione vissuta durante le registrazioni e tutta la produzione in quel di Los Angeles, compreso il lavoro di artwork realizzato dal fotografo Rocky Schenck, già autore della precedente copertina su “Facelift”, a trasmettere all’album quell’alone oscuro e sinistro di sofferenza ed inquietudine.
L’opera in sé si può definire come una sorta di concept sulla tossicodipendenza, dove le paure, il dolore, i fantasmi interiori, l’inferno che stavano vivendo in quel momento i membri della band, si riversano in un full-length che risulta meravigliosamente potente e che musicalmente si discosta dagli stereotipi propri del Grunge, proponendo sonorità più vicine al Metal, al Doom, allo Stoner, fino ad episodi Boogie di Blues pesantissimo e sovra incisioni vocali meravigliosamente intrecciate tra loro.
L’attacco è tra i più violenti della storia del Rock, “Them Bones” è un pugno improvviso in piena faccia, scioccante, orrorifico, si viene investiti da un muro sonoro torrenziale che rimanda ad essere incuriositi da quella cover, per guardarla, e chiedersi il perché di quel titolo. Forse per richiamare lo “sporco” dell’eroina che inquina corpo ed anima fino a sentirsi sprofondare?.., oppure “Dirt” come “terra” quella terra che ti inghiotte pian piano fino ad assimilarti come parte di essa, o dalla quale si rinasce speranzosi di potersi rialzare da quell’oblìo che è la tossicodipendenza?
Brani come “Rooster”, “Junkhead”, la stessa title-track e “Down in a Hole”, idealizzano quest’altalena di oscure sensazioni che passa dalla glorificazione all’abuso di sostanze, al precipizio di un oblio mortifero e rassegnato, fino alla speranza di ritrovare sé stessi ed allontanare questi demoni interiori.
Mentre lo si ascolta non si può fare a meno di guardare il corpo esanime di quella donna, la modella Mariah O’Brien, già fotografata in precedenza dallo stesso Schenck per la cover del singolo “Bitch School” degli Spinal Tap, e qui rappresentata in simbiosi con quel deserto arido e tormentato dal sole.
Guardandola potrebbe essere sia morta che viva, questa idea di mettere in copertina una ragazza mezza nuda e sepolta in parte dal deserto è venuta naturalmente agli stessi Alice In Chains, un’idea infernale.
Per realizzare la cover Schenck scelse di costruirsi il proprio deserto negli studi di Hollywood dipingendo il cielo sullo sfondo, costruendo le montagne e realizzando la superficie con schiuma ed argilla, lasciando un buco a forma di corpo per consentire alla modella di adagiarsi dando l’impressione di essere mezza sepolta.
La bella Mariah si presta all’idea adagiandosi in quel buco nell’argilla e restando quasi immobile per ben otto ore prima che il maestro potesse avere finalmente lo scatto perfetto, dirà in seguito di essere saltata fuori appena finito il set e di essere corsa subito in bagno facendo volare la “terra” ovunque.
L’immagine di copertina voluta dalla band, viene idealizzata dall’autore in modo tale da ottenere un risultato che rispecchi e rappresenti l’essenza del lavoro discografico stesso. Un quadro che rimanda a temi biblici, religiosi ed al contempo esistenziali e che porta in sé un simbolismo significativo. Ad esempio il deserto nella Bibbia è un luogo simbolico, pieno di significati. È nel deserto che il popolo ebraico vive l’esperienza dell’Esodo, diventando quindi l’emblema del camminare, in questo caso un percorso di vita. Il deserto è anche l’ambiente dove si impara a vivere dell’essenziale. È il sito dove Gesù si ritira spesso per gustare il silenzio, per pregare, per stare da solo, ma rappresenta anche un ambito di sofferenza, un percorso obbligatorio come lo fu per il popolo ebraico durante la migrazione dall’Egitto verso la Terra Promessa. Nel deserto Gesù fu tentato dal diavolo, quindi è una zona insidiosa, come a volte lo è la vita stessa.
Anche la donna rimanda ad un idea iconografica religiosa forse al limite del blasfemo se analizziamo la figura di quel corpo esanime menzionando due immagini sacre del cristianesimo: Gesù e la Madonna. Difatti è evidente come la parte inferiore del corpo, e quindi la posizione delle gambe e dei piedi, richiami in modo chiaro la postura di Gesù in croce, mentre la parte superiore cioè le mani poste sul corpo e l’espressione del viso, riportano alla mente l’immagine della Madonna in un’espressione rassegnata ed assorta. Personalmente, guardando il volto di Mariah, tra le tante raffigurazioni sacre di Maria, l’ho trovato molto somigliante alla “Madonna Della Pietà” di Civitavecchia, un dipinto del 1720 della pittrice Margherita Vannucci Piri, tale raffigurazione nel 1854 fu protagonista di un presunto miracolo quando il giorno 20 Aprile di quell’anno il dipinto della Madonna iniziò a muovere prodigiosamente gli occhi posando lo sguardo sui fedeli i quali divennero testimoni di quella meraviglia.
Un lavoro importante e pregno di significati quello di Rocky Schenck, il quale ha sempre dichiarato di essere stato soddisfatto dalle esperienze avute con gli Alice In Chains, che a detta sua gli hanno cambiato la vita regalandogli momenti davvero brillanti, e come non definire prodigioso un lavoro come “Dirt” sia in termini musicali che in termini di art-working?
Una release talmente sofferta da risultare poi così potente ed emozionante a tal punto da renderla una pietra miliare degli Anni‘90 e capolavoro assoluto di una tra le più talentuose rock band di sempre.
Marco “Machu” Dadàmo