Anno d’uscita: 1955
Regia: Charles Laughton
La storia narrata nel film “La morte corre sul fiume” (in inglese: “The Night of the Hunter”) è ambientata in Virginia Occidentale negli anni della Grande Depressione quando torme di disoccupati si spostavano alla ricerca di un lavoro o, più spesso, di altri derelitti da derubare. Uno di questi è Ben Harper (Peter Graves), che si trova rinchiuso in carcere dove divide la cella con un certo Harry Powell (Robert Mitchum). Quest’ultimo sa che l’uomo ha preso parte a una rapina che gli ha fruttato un bottino di diecimila dollari, e tenta di estorcergli dove ha nascosto il denaro. L’unica informazione che ottiene, prima che Ben Harper sia condannato all’impiccagione per l’uccisione di due persone, è una citazione della Bibbia sussurrata durante il sonno: «E un bambino li condurrà.»
Non appena uscito dal carcere, l’uomo si reca alla casa di Harper, dove fa la conoscenza della vedova Willa (Shelley Winters) e dei due figli: John (Billy Chapin) e Pearl (Sally Jane Bruce). Il ragazzino mostra un’acuta diffidenza nei riguardi del nuovo arrivato, mentre la piccola Pearl tende a fidarsi maggiormente. L’uomo riesce a sposare Willa e da questo momento in avanti inizia una sorta di gioco del gatto col topo nei confronti dei bambini, tra seduzioni, lusinghe e minacce pur di arrivare a scoprire il nascondiglio del denaro («E un bambino li condurrà.» è un chiaro indizio che essi conoscano il luogo dove è nascosto il malloppo). Sembra che i due piccoli nulla possano di fronte allo strapotere del patrigno, che diventa sempre più minaccioso nei loro riguardi…
Un cattivo da manuale
«Gesù parlò ancora: “Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi travestiti da pecora, ma di dentro sono lupi feroci; li riconoscerete dai loro frutti”». Non c’è modo migliore che riportare questo passo evangelico per presentare come si deve il personaggio di Harry Powell, uno dei più inquietanti “villain” nella storia del cinema. Nella classifica redatta dall’American Film Institute del 2003 di eroi e cattivi, egli si posiziona ottimamente in ventinovesima posizione nella seconda categoria; tra l’altro in ventottesima vi è un altro famigerato malvagio interpretato dallo stesso attore, ovvero il violento Max Cady ne “Il promontorio della paura”.
Nella vita di Harry Powell la religione c’entra assai: è un pastore protestante, o almeno si spaccia per tale. Viaggia attraverso l’America attanagliata da una crisi economica e sociale senza precedenti, alla ricerca delle sue vittime, preferibilmente donne sole e soprattutto ricche. Il suo catechismo preferito è un tatuaggio con due parole incise sulle dita delle mani, e quindi in bella vista: sulla sinistra c’è HATE e sulla destra LOVE, dita che di quando in quando egli intreccia per ingaggiare un simbolico combattimento.
Nonostante il suo indubbio ascendente sulle donne, e sulle persone in generale, vi è una forte componente sessuofobica in Harry Powell, che egli non manca di ostentare con espressioni di disgusto davanti a ballerine seminude e contraendo le dita con la parola HATE. Ma è tutta l’America degli Anni’30 che ha con il sesso un rapporto problematico, di sicuro una “legacy” della sua componente puritana. E la misoginia appartiene anche al regista inglese Charles Laughton, che attribuisce a quasi tutti i personaggi femminili caratteristiche di irredimibile stupidità, in quanto donne dedite soltanto a trinciare giudizi sul prossimo e a confezionare torte, e del tutto prive di spirito critico. Tra l’altro il film fu il primo e l’unico di questo regista, poiché non ebbe il successo sperato, e fu recuperato solo col tempo dai critici e dai cinefili come un autentico gioiello.
Una favola nera
La prima comparsa notturna di Harry Powell accanto alla casa è menzionata nei manuali di analisi cinematografica come esempio magistrale nell’uso della luce (fonte: “Manuale del film – Linguaggio, racconto, analisi” di G. Rondolino e D. Tomasi). In camera da letto, John sta raccontando alla sorellina una favola che parla di due bambini e un tesoro, quando d’improvviso, proiettata dalla luce del lampione, si staglia nel riquadro della finestra la sagoma del reverendo con l’inseparabile cappello a larga tesa. Non è l’unica scena da incubo, poiché il film è una storia gotica tutta da sfogliare, e ammirare, anche grazie alla mirabile fotografia di Stanley Cortez.
Un’altra scena dal fortissimo impatto simbolico è la visione di Powell alla caccia dei bambini, stagliato contro il cielo al tramonto mentre cavalca e fischietta un’allegra canzoncina di chiesa, davanti allo sguardo atterrito di John nascosto in un casolare. La giocondità del motivetto che risuona nel silenzio, la tranquilla solennità del predatore a poca distanza, l’orizzonte che si dispiega come in una visione (del bambino e dello spettatore, come se fosse nascosto anche lui nel casolare) e la finalità cruenta dell’inseguimento caricano la scena di una tensione quasi insopportabile.
Una violenza nel buio
“La Morte Corre sul Fiume” è un film violento, ma di una brutalità mai esibita, sia perché questa era la consuetudine nelle pellicole hollywoodiane girate in quell’epoca sia perché ciò che viene espresso attraverso i rumori convulsi di una lotta o un cadavere artisticamente composto sul fondo di un fiume è enormemente più spaventoso di una scena granguignolesca di uccisione. Lo spettatore può costruirsi l’evento con la sua immaginazione, e amplificarlo a dismisura. Violente sono anche le folle che dapprima vengono irretite dalla parlantina di Powell, o godono al pensiero delle impiccagioni di loro compaesani, e poi sono pronte a muoversi in massa per linciare i loro idoli ormai decaduti. Violenta è una nazione dove i bambini sono costretti a girare, laceri e affamati, mendicando un pezzo di pane e confidando nel buon cuore del prossimo.
Le locandine
Le locandine più interessanti da esaminare sono quelle originali statunitensi. La prima mostra John e Pearl su una barca: la piccola siede a poppa, mentre il fratello, maneggiando il remo, cerca di accostare alla riva. La scena è un fotogramma del viaggio notturno dei bambini, ormai in fuga sulle acque scintillanti del fiume: come novelli Hansel e Gretel, fratello e sorella sono ormai abbandonati a loro stessi, devono cavarsela da soli. Contro il cielo si stagliano un casolare e un fienile, all’apparenza disabitati e che ricordano gli edifici metafisici nei quadri di Edward Hopper.
La parte dedicata ai bambini occupa un terzo del poster in alto, la sommità dei tetti è tagliata, e il tutto sembra schiacciato da qualcosa che sta emergendo nella parte sottostante: il viso gigantesco di Harry Powell. Mentre le fisionomie dei bambini non sono leggibili per via della distanza e della minuscola dimensione delle loro persone – Pearl ci volge addirittura le spalle – la testa di Powell è enorme e sembra sbucare dalle acque come scostando l’orlo di un tappeto liquido, dalle frange luminose. È scaturito dal buio, con gli occhi intenti all’osservazione, rivolti verso l’alto, e allo stesso tempo imperscrutabili. I nomi dei due attori principali, il titolo del film e il nome del regista sono in un font aguzzo, e le scritte circondano un lato del suo viso.
L’accostamento inevitabile è quello con il babau o uomo nero, personaggio agitato come uno spauracchio dai genitori (almeno un tempo!) e in grado di risvegliare i nostri più spaventosi terrori infantili. Solitamente l’orco classico se la prende proprio con i bambini, arrivando nei casi più efferati a ucciderli per cibarsene. A differenza dell’orco tradizionale, nerboruto e spesso ottuso, però, Harry Powell è un uomo dal viso amabile e con una simpatica fossetta sul mento, sempre accuratamente sbarbato; è vestito con eleganza e rigore, anche per accattivarsi la fiducia delle persone. È scaltro e intelligente; e soprattutto implacabile al punto da sembrare un automa.
L’orco della fiaba di “Pollicino” in un’illustrazione di Gustave Dorè.
Il secondo accostamento, suggerito dall’impostazione del manifesto, è quello con la psicanalisi. Sigmund Freud, scopritore della disciplina, paragonava la mente a un iceberg, dove la parte emersa simboleggia la coscienza, ed è molto più piccola di quella sommersa. E lo psicopatico reverendo Powell non può che salire dagli abissi oceanici e insondabili dell’inconscio per spaventarci. L’acqua, dunque, ha un peso non irrilevante sia nel manifesto che nella nostra mente.
Schema del modello psicanalitico della mente, dove la parte immersa (inconscio) è predominante.
La seconda locandina ha un’organizzazione più regolare e classica, e mostra Henry Powell che tiene sulle ginocchia la piccola Pearl e sembra in procinto di raccontarle una fiaba o forse, come l’orco, sta per divorarla. I due protagonisti sono in posizione centrale, mentre una luce quasi mistica, che ricorda l’ingresso luminoso di Gesù nella tela “La vocazione di Matteo” di Caravaggio, entra in diagonale dalla sinistra, e li scolpisce. Essa immerge nell’ombra la faccia del reverendo, illuminando pienamente il viso della bambina, e la bambola che tiene stretta contro di sé e da cui mai si separa. Pearl ha il viso rivolto verso il patrigno, a metà tra il fiducioso e l’intimorito. Il contrasto tra luce e ombra, tra malvagità e innocenza, non potrebbe essere più netto.
La bambola sorride felice con il suo viso dipinto e si trova vicinissima a Henry Powell, ed è un dettaglio non ininfluente in questa spaventosa storia di caccia e morte.
Cristina M. Cavaliere
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