Anno di uscita: 1999
Siti web: https://www.eiffel65.com/ – https://gabryponte.com/
L’appuntamento era per le 19:30 di un giovedì sera di fine giugno 2022 davanti ad un ristorante sul lungolago di Como; però, siccome venivamo quasi tutti da fuori città, ci si era concessi tacitamente un’indulgente quarto d’ora extra.
Tra parcheggi creativi, semafori coalizzati, navigatori satellitari esausti che ormai dicevano «Fermati un attimo, che chiedo…», e altre cose del genere, comunque, bene o male eravamo tutti o già arrivati, o nei pressi del ritrovo. Io, Laura, Jack e Renée eravamo già entrati nel ristorante, e ingannavamo il tempo osservando le onde del lago e i guizzi di colore che il vento spennellava per un istante nel cielo sollevando i teli degli ombrelloni lungo il lido.
Fu proprio in quei momenti che passò alla radio del ristorante una canzone della band torinese Eurodance Eiffel 65 che riconobbi subito; e, dal momento che tra gli amici e le amiche presenti c’erano persone di origine straniera che non ne avevano mai sentito parlare, e altre nate nei primi Anni’90 che ne avevano una conoscenza “di sfuggita”, mi venne spontaneo raccontare nel corso della serata ciò che sapevo di quel gruppo musicale, anche rispolverando qualche episodio del mio passato in cui le composizioni della band avevano offerto, diciamo, la “colonna sonora”…
Ad esempio, accennai al fatto che mi sono imbattuto per la prima volta nella musica degli Eiffel 65 lo stesso giorno del 1999 in cui il compagno di banco liceale Amix ritrovò per caso, nella borsa da ginnastica, un compito in classe di chimica che avrebbe dovuto restituire un paio d’anni prima all’insegnante. E menzionai anche l’occasione, “il modo” molto comune in quel periodo, per cui feci conoscenza con le canzoni della band. Raccontai infatti che, due o tre ore dopo il ritrovamento archeologico di cui sopra, nel pomeriggio, ero a casa al tavolo dello studio, a cercare di andare d’accordo con le funzioni matematiche che ci avevano insegnato poco prima. Ma, siccome le funzioni non funzionavano proprio come al mattino (Amix un giorno giurò pure che se le era sognate di notte, che gli saltellavano intorno ripetendogli: «Non mi sai, non mi sai! Non mi capisci, non mi capisci!»), decisi di rilassarmi un poco, accendendo la radio sulla frequenza di DiscoRadio.
Era l’ora in cui trasmettevano il programma “Discoradio Disco Dance”, cioè una serie di canzoni Eurodance tra le più apprezzate del momento; e avrete già intuito che nella play-list che ascoltai quel giorno c’era anche un brano proprio degli Eiffel 65: “Blue (Da Ba Dee)”. Quella traccia, entrata poi nella top ten USA nel 2000, divenne la mia “hit” tra le tante altre dello stesso genere che avevo registrato su una musicassetta nei pomeriggi precedenti, come avevano fatto del resto anche molti miei compagni di classe. Era infatti molto comune tra i banchi delle scuole superiori degli Anni‘90 realizzare delle compilation “fai-da-te” di questo tipo, con una matita sempre tenuta a portata di mano per riavvolgere il nastro grippato (grazie per averci agevolato l’adolescenza, ignoto scopritore della grafite!).
Sulla stessa musicassetta che avevo adoperato per “Blue (Da Ba Dee)”, un paio di giorni dopo finì registrato anche un altro pezzo di successo firmato dagli Eiffel 65, intitolato “Move Your Body”. Siccome, come sapete, “non c’è due senza tre”, mi misi presto a cercare altre canzoni della band torinese. Raccogliendo un po’ di informazioni, scoprii anzitutto che erano tre anche i membri del gruppo: Jeffrey Jey, Maurizio Lobina e Gabry Ponte.
Quindi, mi rivolsi ad un negozio di dischi vicino a casa per comprare una copia della loro opera prima: “Europop”. Questo acquisto poteva sembrare, per l’epoca, un po’ insolito: non per il fatto in sé di cercare un CD originale invece di imbastire una raccolta “artigianale”, quanto piuttosto perché era in generale poco comune per i musicisti del panorama Eurodance pubblicare interi album full-length. Le loro incisioni si potevano invece trovare molto più frequentemente in dischi in formato “singolo”, oppure in compilation che contenevano mediamente fino a quindici successi di artisti diversi. Infatti, riuscii a procurarmi una copia di “Europop” solo in edizione tedesca, per mezzo di una provvidenziale gita di classe a Berlino dell’amico Gazzelli (sempre grazie, Gazza!).
La mia versione di “Europop” era quindi già di per sé – passatemi il termine – “speciale” anche solo considerando la sua provenienza; però colpiva l’attenzione anche per altri motivi, a cominciare dall’immagine di copertina. Oggi, inevitabilmente, il “fattore sorpresa” di quest’illustrazione in parte sfuma, e a prima vista si potrebbe sbrigativamente accostarla a numerose altre che ritraevano band pop in ascesa sul finire dello scorso millennio.
Pensate ad esempio ai ritratti fotografici di artisti come Backstreet Boys e Take That, in cui il colore bianco degli abiti assumeva spesso un ruolo rilevante proprio come nell’artwork dell’album di debutto degli Eiffel 65: più nello specifico, si può addirittura sottolineare che modelli di camicie nivee e vaporose come quelle che vediamo sulla copertina di “Europop” fossero un leitmotiv ricorrente tra gli interpreti della pop music a due passi dal 2000.
Nonostante queste somiglianze, però, c’è una peculiarità che spicca comunque nitida sull’illustrazione scelta dal gruppo torinese per il suo primo full-length: la componente futuristico-spaziale.
Jey, Lobina e Ponte sembrano infatti letteralmente materializzarsi davanti ai nostri occhi grazie a qualche dispositivo avveniristico posto alle loro spalle. I profili dei musicisti appaiono ancora leggermente indistinti in un gioco di luci elettriche, ma una conclusione risalta invece chiara fin da subito: la fantascienza e la tecnologia del futuro sono connotati importanti e ricorrenti nell’immaginario degli Eiffel 65.
Per quanto riguarda la fantascienza, troviamo immediatamente una prova ulteriore di ciò se osserviamo i videoclip di “Blue (Da Ba Dee)” e di “Move Your Body”. I costumi spaziali e i viaggi a bordo di astronavi sono per l’appunto una costante nei due filmati, che d’altra parte ci offrono anche la possibilità di notare come la band abbia interpretato la science fiction associandola a qualcosa di inedito per questo genere: l’autoironia. Ditemi, ad esempio, se la grandinata di ceffoni con cui Maurizio Lobina si sbarazza degli alieni rapitori nel videoclip di “Blue (Da Ba Dee)” non è degna del migliore Bud Spencer… Oppure, se non ispira simpatia il maldestro extraterrestre Zorotl, diventato presto una vera e propria “mascotte” degli Eiffel 65…
Se ci spostiamo poi sul tema della tecnologia futuristica, scopriamo che il trio torinese, già nel 1999, focalizzava in alcuni dei suoi testi molte implicazioni del fenomeno di Internet, che verso la fine dello scorso millennio non era certamente collettivo e diffuso su scala mondiale come oggi. Anche in questo caso le tematiche sono state sviluppate dagli Eiffel 65 adottando spesso una vena vivace e spiritosa, come nel caso della canzone “Hyperlink”. È altrettanto da notare, però, che alcune riflessioni dei tre musicisti nelle lyrics di “Europop”, ad esempio nei testi di “Silicon World”, inquadravano con serietà aspetti cruciali del rapporto tra uomo e tecnologia che nel 1999 potevano sembrare solo teorici, ma che oggi hanno perso sempre più il loro aspetto metaforico, avvicinandosi per l’appunto alla realtà.
Più in generale, si può osservare come il messaggio positivo portato dagli Eiffel 65 in tracce come “Now is Forever” non sia un invito alla spensieratezza “sconfinata” fine a sé stessa: ne è una dimostrazione lampante la loro hit “Too Much of Heaven”, il cui testo si concentra sulla facilità con cui il successo possa rapidamente trasformarsi in una trappola. Se si pensa all’impennata di popolarità che la band stava ottenendo “in contemporanea” grazie alla pubblicazione del suo full length di debutto, salta immediatamente all’occhio la particolarità di un simile invito alla prudenza che i tre musicisti sembrano aver rivolto anzitutto a sé stessi. È esattamente l’antitesi del concetto di “oltre ogni limite” proposto da numerosi altri artisti delle sette note, e rende sicuramente “Too Much of Heaven” una canzone distinguibile fin dalle prime parole. Credo che sia anche per questo motivo che la riconobbi subito alla radio del ristorante quella sera a Como.
A proposito, nel caso vi stiate domandando se durante la cena io sia effettivamente riuscito a raccontare tutto quello che ho scritto qui sopra, beh… la risposta è quella che vi immaginate: no. Non ce l’avrei fatta neppure contando anche gli ulteriori dieci minuti che ci mise Dalila per raggiungerci percorrendo a piedi nella sua giacca leopardata il lungolago sopravento (faceva un passo avanti e due indietro a ogni folata … Grande determinazione da parte sua: spartano Leonida, go home!).
Dovetti necessariamente fare dei tagli; ma si vede che quello che riferii bastò a incuriosire, perché tre delle presenti alla cena vennero poi circa un mese dopo a un concerto con protagonista Gabry Ponte in veste solista a Clivio, in provincia di Varese.
Tra il pubblico presente a quello spettacolo c’erano anche gli Anni’90; o, perlomeno, c’era metà del loro guardaroba. Sì, perché, tra scarpe Buffalo con la “zeppa”, pantaloni cargo, e camicie in acetato tutt’intorno, anche il calendario in persona aveva il suo daffare a non confondersi. E naturalmente c’era anche il linguaggio colloquiale di quegli anni, i modi di dire che risuonavano di nuovo… Qualcuno, dovetti spiegarlo alle amiche più giovani o straniere che mi avevano raggiunto quella sera. Ksenia in particolare mi chiese cosa significasse un termine che aveva sentito pronunciare almeno due volte tra i presenti: “zarro”. Io, per evitare un altro “raccontone di contestualizzazione”, mi limitai a dire che si trattava di una parola di slang giovanile che indicava un tipo di ragazzo molto appariscente.
Ksenia rifletté per qualche attimo, poi replicò di non averla mai sentita prima, le volte che era venuta in Italia: neppure tra i ragazzi delle scuole superiori alla fermata dell’autobus.
A quel punto le risposi: «Può essere… Ma, in fondo, che ne sanno i 2000? …»
Paolo Crugnola