Anno d’uscita: 2013
Regia: Uberto Pasolini

L’espressione “still life”, titolo del film di Uberto Pasolini, indica la raffigurazione di soggetti inanimati. In fotografia, si tratta di una tecnica assai ardua che ha lo scopo di esaltare al massimo il soggetto, per esempio con l’uso di luci particolarmente potenti e focalizzate. In pittura essa si riferisce al genere della “natura morta” con fiori, selvaggina e suppellettili, portata a vertiginosi livelli artistici dai pittori fiamminghi del Seicento. Non a caso proprio in questo secolo prende piede il tema della “vanitas” dove tra gli oggetti si insinua un teschio, quale monito della transitorietà di ogni cosa terrena e del passaggio inesorabile del tempo.
da sinistra a destra: Fotografia di natura morta con zucca di Marco Bernardini. – Olio su tela intitolato “Autoritratto con simboli della vanità” di David Bailly, 1651.

La pellicola “Still Life”, presentata alla 70ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior regia nella sezione “Orizzonti”, si inserisce in pieno nel filone dei numerosi film che hanno come tema la morte e i suoi cerimoniali, quali esequie funebri e sepoltura, uno per tutti “Departures” di Yojiro Takita. Le prime immagini del lungometraggio di Uberto Pasolini ci mostrano infatti una serie di funerali con differenti riti confessionali, in chiese desolatamente vuote, dove l’unica presenza unificante è un uomo dal viso fanciullesco, vestito con un soprabito nero e munito di una valigetta.Si tratta di John May (Eddie Marsan), misterioso e abitudinario al punto da assumere caratteristiche ossessivo-compulsive. Compie il medesimo tragitto casa-ufficio, mangia sempre le stesse cose, e anche lui sembra come ritagliato e incollato su uno sfondo neutro, e originato dal nulla perché non gli si conoscono parenti, amori o amicizie. In altre parole, non ha un passato. Lavora al Municipio di Londra, in un ufficio che è una sorta di seminterrato, con un computer antidiluviano e un telefono con cornetta e filo. Lo chiamano nelle case di coloro che sono morti in solitudine, affinché, tramite oggetti o scritti, svolga indagini per rintracciare i parenti della persona defunta e invitarli al funerale organizzato dal Comune.
Nonostante John May insista con dolcezza e pazienza, la maggior parte dei parenti rifiuta di partecipare, per vecchi rancori o superficialità. Di conseguenza egli non soltanto si preoccupa di organizzare la liturgia funebre per conto del Municipio, ma prepara addirittura l’omelia, scrivendo del morto come se l’avesse conosciuto, con un po’ di fantasia e scegliendo la musica più adatta. Dimostra quindi una “pietas” che per certi versi richiama la sollecitudine di Mizushima, un soldato diventato monaco nel bellissimo film “L’arpa birmana”, diretto da Kon Ichikawa nel 1956, che si incarica di dare onorevole sepoltura ai commilitoni caduti, per timore che, secondo la credenza orientale, il loro spirito vaghi senza mai trovare pace.

John May vive in una casa ordinata, quasi asettica come l’ufficio. Alla sera, sfoglia un album dove ha incollato le fotografie di coloro che hanno lasciato questo mondo in solitudine e che finiscono per diventare la “sua” famiglia. Sono vite, tante vite, facce giovani o vecchie dalle espressioni mutevoli, serie o scanzonate, vi sono abiti con fogge antiquate o moderne, uniformi che denotano una professione, sopra una carta sciupata dal tempo, spesso in bianco e nero. Mentre sgocciolano le note della colonna sonora di Rachel Portman, osserva quei volti, lui sì, con sguardo partecipe e attento, e cercando di comprendere quale sia stato il loro vissuto.

Non si può fare a meno di associare la scena alla canzone dei Beatles dedicata agli invisibili, “Eleonor Rigby”, che inizia con una richiesta: «Look at all the lonely people» («Guarda tutte le persone sole») e traccia le esistenze di due persone in particolare: colei che dà il titolo alla canzone, e Father McKenzieUn giorno, gli capita di essere chiamato nella casa del defunto Billy Stoke, in un ambiente così sporco da dover convocare l’ufficio d’igiene per lo sgombero. Il caso lo prende talmente tanto che quando il Municipio decide di chiudere il suo ufficio, considerato un “ramo secco” (John May viene definito dal suo capo “scrupoloso ma lento”, e aggiunge in modo significativo che «Il funerale si fa per i vivi, i morti se ne fregano»), decide di proseguire le indagini in forma privata per rintracciare parenti e conoscenti. Scopre così che Billy Stoke sembra il suo esatto opposto, ma finisce per conoscerlo così bene da definirlo un amico e fargli un dono molto speciale. Non lo sa ancora, ma quell’amicizia così particolare cambierà la sua vita meticolosa… fino allo stupefacente finale del film.

La regia di “Still Life” è sommessa e simbolica. La pellicola vira molto spesso sul grigio, che però non trasmette un senso di cupezza, bensì si stempera in tonalità delicate. Così come non ci sono colori chiassosi, non vediamo mai grandi folle, ma più spesso conversazioni a due o al massimo a tre, in piccoli negozi e strade deserte. Il tutto sottolinea l’aridità relazionale della società in cui John May compie le sue ricerche, la solitudine degli individui con cui si confronta. Gli interni e gli esterni sono resi da inquadrature di grande ordine compositivo e da una fotografia molto pulita, proprio come deve essere uno “still life”.

La locandina di “Still Life” reca in alto la scritta, con un font corsivo che richiama la scrittura a mano, «John May è un uomo speciale» e mostra il protagonista, elegantemente vestito e dotato della sua inseparabile valigetta, che ascende con lo sguardo puntato verso l’alto. Tutt’attorno a lui c’è un cielo con nuvole che galleggiano, dipinte con stile naïf; è una scena che sembra quasi una vignetta comica. Inevitabile è l’accostamento con i celeberrimi uomini muniti di cappotto nero e bombetta del pittore surrealista belga René Magritte, di cui propongo alcune opere a seguire. Nella tela “Golconda” del 1953, gli uomini salgono (o scendono) in un cielo smorto e piatto e addirittura sembrano moltiplicarsi a pioggia. Se compaiono sulla tela “in solitaria” questi personaggi molto spesso non possiedono una fisionomia distinguibile, sia perché li vediamo di spalle sia perché la faccia viene coperta da un altro elemento, come una mela o una colomba.
Esemplificative sono le opere “The schoolmaster” del 1954 dove l’uomo è appunto visto di schiena con uno spicchio di luna sopra la testa e “Son of Man” del 1964 con una mela acerba sospesa davanti al viso.
Ritornando a John May, a fargli da piedistallo sono delle fotografie dal bordo dentellato, che sembrano aprirsi a ventaglio come in un gioco di carte e danno movimento al manifesto. Di esse è visibile soltanto il viso di una donna, Kelly (Joanne Froggatt), la figlia di Billy Stoke, ma presumibilmente sono immagini di coloro cui lui ha fatto del bene, o di cui ha onorato la memoria. In basso, c’è un nero profondo, che ben contrasta con il cielo azzurro, e una spruzzata di terriccio e polvere, forse originata dalla “partenza” di John May. Nonostante la solitudine del protagonista, l’immagine esprime serenità e un pizzico di allegria: sta andando verso l’alto, quindi verso la luce, peraltro senza chiamare in causa nessuna divinità (che nel film non viene mai menzionata). Ben diverso è il poster di “Un giorno di ordinaria follia” del 1993, diretto da Joel Schumacher, per certi versi paragonabile nell’impostazione a quello di “Still Life”.
L’impiegato William Foster (Michael Douglas) è nella stessa posa solitaria di John May, ma il suo piedistallo è un muretto di solidi mattoni con qualche gradino, bene ancorato a terra, sporco e coperto da scritte. Il muretto gli permette di salire e guardarsi attorno con aria bellicosa, alla ricerca di possibili bersagli o nemici in avvicinamento, tuttavia la cosa finisce lì: non c’è nessun cielo azzurro ad accoglierlo. Particolare non secondario è la mitraglietta che regge in una mano, insieme alla valigia da impiegato.

Al contrario, l’esistenza dei dimenticati (la “still life”) ha riacquistato movimento e dignità grazie a John May, che trasporta tutti con sé nel suo moto ascensionale. Anche lui ha fatto parte di quegli invisibili e ha condotto una vita solitaria, se vogliamo. Tuttavia, nel manifesto il piccolo uomo è diventato un gigante, una sorta di funzionario celeste con il compito di riannodare legami spezzati, di offrire un’estrema chance ai vivi e ai morti. E, soprattutto, ricordare che qualsiasi persona – anche la peggiore – appartiene pur sempre a quella strana e complicata specie chiamata umanità… e merita un ultimo omaggio sotto forma di compassione e ricordo.
Cristina M. Cavaliere

 

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