Anno d’uscita: 1994
Sito web: https://www.soundgardenworld.com/

I Soundgarden prendono il nome da una scultura di Douglas Hollis (“A Sound Garden” per l’appunto) situata in un parco di Seattle e composta da una serie di strutture metalliche simili ad antenne radiofoniche che, con le brezze, si muovono emettendo suoni e rumori particolari, a seconda dell’intensità del soffio.
La loro musica, proprio come la scultura, prende i diversi soffi del vento, quello forte e pesante del metal e dell’hard rock, in primis i Black Sabbath (il chitarrista Kim Thayll dichiara apertamente di aver preso da Tony Iommi la particolare accordatura “drop D”, che conferisce alla chitarra un tono più cupo e scuro) ma anche sonorità diverse aperte a sbocchi anche melodici. La straordinaria vocalità di Chris Cornell ha fatto pensare ai Led Zeppelin (influenza forse più presente nei Temple of the Dog, suo progetto parallelo) ma usare solo questi riferimenti è riduttivo. La primigenia “scena di Seattle” di cui i Soundgarden facevano parte insieme ai Green River, rimodellava il genere rock come la risultante di un miscuglio di stili (punk, heavy metal, new wave, psichedelia), poi battezzato per comodità “grunge”. In particolare Cornell e soci utilizzavano i linguaggi formali del metal per esprimere uno spirito punk.

La scena grunge oscilla, musicalmente e psicologicamente tra violenza e dolcezza e la vulnerabilità di molti suoi protagonisti segna un ulteriore stacco dalla scena metal Anni’80. Chris Cornell è l’esempio migliore di questa differenza: con il suo fisico imponente e statuario abbinato ad un volto dai lineamenti di un Cristo doloroso, soave e malinconico; con la sua voce dall’estensione impossibile, capace di passare senza sforzi dall’urlo al sussurro in un secondo. Brutalità e delicatezza, il senso della propria fragilità e lo sguardo al proprio interno per raccontare di mostri oscuri, che non sono più le fascinazioni sataniche presenti nell’Hard Rock Anni’70 ma presenze ben più spaventose. E, purtroppo, mortali.

I due primi dischi dei Soundgarden, “Louder than Love” e “Ultramega OK”, caratterizzati da suoni metal più tradizionali, anche per l’intento di lanciare la band come i nuovi Metallica. Già in “Badmotorfinger” emerge una maggiore complessità e la voglia di stemperare i toni duri con le tinte delicate della psichedelia.

Con “Superunknown”, la quarta release, considerata la loro vetta artistica, la consistenza pesante del suono Soundgarden viene smussata stemperandola con colori sempre oscuri ma più pop (“Black Hole Sun”) e le sue varie componenti miscelate in un impasto omogeneo di litanie oscure alternate a lamenti hardcore, velocità punk e frullati di psichedelia orientaleggiante, accordature strane e sonorità mediorientali, ritmi tribali e selvaggi (“Spoonman”). Il lievito è l’immaginario oscuro e la voce potente di Cornell, ma il risultato finale si deve ad un perfetto bilanciamento dei vari componenti: la chitarra di Kim Thayll e la batteria di Matt Cameron fanno tremare la Terra. E il bassista Ben Shepard, figura nuova nel gruppo nella formazione già da “Badmotorfinger” contribuisce a spostare in là gli orizzonti del gruppo con brani dall’andamento molto particolare (“Head down” e “Half”).

Assenza di confini, di contorni precisi caratterizza questo disco anche a livello grafico, segnando un ulteriore distanza dai full-length precedenti: “Louder than Love” convogliava la brutale, primigenia potenza del gruppo con una plastica posa dal vivo di Chris Cornell per descrivere un suono semplice e diretto.
Sulla copertina di “Badmotorfinger” campeggiava una composizione grafica che richiamava molto le simbologie esoteriche care al metal.
L’artwork scelto per “Superunknown” è stato realizzato dal fotografo Kevin Westenberg, già autore di cover per dischi di Nirvana e Radiohead, e la session fotografica fu fatta senza avere idea delle canzoni nel disco che sarebbe uscito solo cinque mesi dopo.
C’era solo da parte di Westenberg l’intento di cogliere i paesaggi ultraterreni della Washington Coast. «Durante la costruzione dell’idea non mi sarei mai aspettato che questo potesse in qualche modo coincidere con la fantastica gamma di ispirazioni musicali create nell’album. C’è sempre anche un pizzico di fortuna e di casualità in più. In un certo senso questa copertina è stata solo un glorioso incidente. Non c’era un vero piano il giorno delle riprese».

La copertina di “Superunknown” è nota come “screaming elf”, elfo urlante, in riferimento alla figura al centro, perché la deformazione e la sfocatura hanno trasformato Chris Cornell in una creatura fatata della foresta, con le orecchie appuntite e la bocca innaturalmente spalancata in un urlo orgiastico. Un personaggio uscito da una fiaba oscura o il Puck del “Sogno di una notte di mezza estate” di Shakespeare.
Come se tutte le atmosfere di questo disco vivessero in quell’indistinto spazio intermedio tra sonno e veglia. Una fotografia che viene fuori sfocata è nel pensiero comune uno scatto venuto male, da buttare via o da cancellare se digitale. Invece l’artista vede oltre, traspone il significato per cui quell’immagine e proprio quella determinata immagine è destinata, ovvero la rappresentazione di un urlo che sfuma nell’aria e si leva come una fiamma, un bagliore nel buio. E forse ha l’intuizione di occupare la parte bassa dell’inquadratura con l’immagine di una foresta che brucia, ma decide di capovolgerla a testa in giù così che gli alberi scuri spettrali contro un cielo bianco-grigio per il fumo diventano una colata nera che sembra provenire dalla foto sopra. La foresta è tradizionalmente immagine simbolica delle paure dell’inconscio, dunque l’assemblaggio nell’artwork di questi pochi elementi visivi insieme alla potenza drammatica di un urlo che nessuno può sentire, bastano a trasmettere la qualità indistinta e disturbante del sogno. O meglio, dell’incubo.

A proposito del lavoro grafico, Chris Cornell ha detto: «“Superunknown” parla in qualche modo della nascita… Nascere o addirittura morire, essere trascinati in qualcosa di cui non sai nulla. La cosa più difficile è fissare un’immagine da mettere su un titolo del genere. La prima cosa a cui abbiamo pensato è stata una foresta in grigio o in nero. I Soundgarden sono sempre stati associati a immagini di fiori e colori lussureggianti e questo era l’opposto. Sembrava ancora organico, ma era molto buio e freddo… Da bambino mi piacevano quelle storie in cui le foreste erano piene di cose malvagie e spaventose invece di essere giardini felici in cui ti accampi».

Forse per rientrare negli spazi della copertina, il frame originale fu tagliato escludendo dall’inquadratura il batterista Matt Cameron. In seguito il fotografo ha voluto dichiarare la sua contrarietà rispetto a questa scelta, e una settimana dopo la morte di Chris Cornell ha diffuso su Instagram il frame nella sua interezza, prendendo le distanze dall’utilizzo del nome “Screaming Elf” che dice non essere stata una sua idea.
Eppure una caratteristica degli elfi secondo la tradizione è che possono far ammalare gli esseri umani, ma possiedono anche il potere di guarirli. E i Soundgarden in “Superunknown” conducono l’ascoltatore dentro le atmosfere malate di queste sedici canzoni, tra buchi neri che inghiottono tutto, cadute nella voragine, tentacoli avvolgenti che trascinano nell’abisso; ma la medicina è la musica, quella voce in volo e in caduta, la chitarra pesante ma liberatoria di Thayll, la tribale potenza ipnotica della batteria di Matt Cameron. Un rito pagano, una cerimonia per radunare intorno tutte le presenze oscure e dominarle. E se ne esce risanati come dopo una prova di coraggio: attraverso una “selva oscura” con la guida della poesia e della musica. Forse proprio il monologo dell’elfo Puck nel “Sogno di una notte di mezza estate” potrebbe chiudere bene questo viaggio “in the superunknown”, oltre l’universo sconosciuto:

“Se l’ombre nostre offeso v’hanno
Pensate, per rimediare al danno,
che qui vi abbia colto il sonno
durante la visione del racconto
e questa vana e sciocca trama
non sia nulla più di un sogno”.
Federica Vitelli