Anno d’uscita: 1990
Regia: Bernardo Bertolucci
«Dio ha creato i deserti perché gli uomini vi possano conoscere la loro anima» recita un detto tuareg. E nel film “Il tè nel deserto” sfolgorano davanti ai nostri occhi gli ampi panorami del Nord Africa, ma vengono bruciate anche le esistenze dei protagonisti in un irresistibile percorso di autodistruzione e nell’autodafé finale. Il film è un adattamento dal romanzo di Paul Bowles, pubblicato nel 1977 con il titolo “The Sheltering Sky”, titolo che equivale a “cielo sotto cui trovare rifugio”, “cielo accogliente”, il che è da tenere bene a mente quando esamineremo la locandina, realizzata dal grande cartellonista Renato Casaro.
La pellicola di Bertolucci ostenta una grande ricchezza cromatica, per merito della fotografia di Vittorio Storaro, esaltata dalla struggente colonna sonora di Ryuichi Sakamoto, ma la sua apparente chiarezza, tale lineare semplicità si prestano a vari livelli di lettura, dando luogo a un film enigmatico come la Sfinge di Edipo. Il senso di mistero è accentuato da una luce rossastra che illumina spesso non soltanto il paesaggio, ma anche gli interni delle stanze d’albergo, delle tende nomadi, delle locande fatiscenti.
Siamo nel primo dopoguerra e con i titoli di testa scorrono spezzoni in bianco e nero di un’America dove si erigono grattacieli con la stessa velocità con cui si producono beni di consumo, e che contrasteranno con gli abbaglianti colori dell’Africa. Poi, da un mercantile in controluce, si stacca una scialuppa ed è l’inizio del film. A bordo vi sono tre americani che, sbarcati con i loro bagagli, si guardano attorno già quasi smarriti, dietro un muro che costituisce già un primo elemento simbolico, una frontiera che essi stanno per varcare. Sono la scrittrice Kit (Debra Winger) e il compositore Port (John Malkovich), ovvero i coniugi Moresby. Al loro seguito è il fatuo e belloccio amico George Tunner (Campbell Scott), che essi si sono tirati dietro quasi loro malgrado.
Scopo del viaggio è quello di ricostituire l’unione di una coppia, in crisi dopo dieci anni, che ormai soffre di incomunicabilità, tema molto presente nei film di Bertolucci; i coniugi vogliono vivere anche un’esperienza esotica, lontani da New York. «Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori. E i viaggiatori possono anche non tornare a casa» ribadisce subito Kit a Tunner. «Il mio solo programma è che non ho programmi» asserisce Port nell’albergo di Tangeri dove hanno preso alloggio.
In albergo fanno conoscenza con altri due americani, madre e figlio: Mrs. Lyle (Jill Bennett) e il figlio Eric (Timothy Spall, immenso come sempre). Sono personaggi abominevoli, nell’aspetto e nei discorsi, che i protagonisti incroceranno spesso durante i loro spostamenti, e che a loro si appiccicheranno. Pur scrivendo guide di viaggio, infatti, lei odia apertamente tutto di quei luoghi, dalla “schifosa umidità” all’“acqua nauseabonda” e soprattutto disprezza gli abitanti di cui non capisce usi e costumi. L’altro grande tema è l’impatto tra due culture diversissime, che, in mezzo a una babele linguistica composta da dialetti locali, americano, francese, spagnolo, non fanno alcun tentativo di avvicinamento reciproco, accrescendo così il senso di solitudine e incomunicabilità che pervade il film.
Nonostante questo, ogni incontro è ricco di presagi, come quello di Port con una prostituta accampata nei dintorni di una Tangeri notturna, labirintica e popolata di presenze quasi demoniache, come il mezzano che lo avvicina mentre è intento a fumare. O il viaggio in treno di Kit e Tunner dove pasteggiano a champagne: «Champagne sì, filosofia no» intima Kit all’amico, dopo l’ennesimo tentativo di quest’ultimo di rendersi interessante; e, nonostante il suo senso di avversione, Kit si ritroverà a letto con lui il giorno dopo. Splendida la scena della coppia fedifraga che cerca di far l’amore su un’altura da cui si contempla un panorama mozzafiato, potente l’immagine del loro colloquio in un cimitero musulmano con pietre a contrassegnare le tombe, sotto un cielo tormentato dalle nuvole. Fedele al “manifesto” di viaggiare a capriccio, il terzetto continuerà a muoversi senza seguire alcun ordine, come se il tempo a disposizione fosse infinito. Sferzati da un’irrequietezza che si trasformerà in disperazione, i protagonisti si sposteranno da un luogo all’altro, su mezzi di trasporto sempre più malandati e sporchi, tra nugoli di mosche definiti “neve nera”, approdando a villaggi di entroterra via via più diroccati e pressoché disabitati, alla ricerca di un altrove che aspetta soltanto loro, e che appare sempre più desiderabile di ciò che hanno sotto lo sguardo.
«Il cielo è così strano, quasi solido, come se ci proteggesse da quello che c’è oltre» «Che cosa c’è?» «Niente». Ecco, forse, in questo scambio tra marito e moglie c’è una possibile chiave di lettura del loro eterno girovagare, come dei novelli progenitori cacciati da un paradiso terrestre che però non esiste: è il tentativo di fuggire in primis dal proprio vuoto interiore, da una noia che prende alla gola, o forse inconsciamente dall’ombra di Thanatos, la Morte, che si allunga man mano che procede il viaggio.
E, nel loro frenetico spostarsi, dove a un certo punto si divideranno da Tunner, la morte raggiungerà Port, colpito da febbre tifoidea. Ciò avverrà in uno dei luoghi più spaventosi e desolati del film, in un fortino della Legione Straniera investito da una tempesta di sabbia, come nella leggenda del soldato che, avendo scorto la morte, cavalcherà fino a Samarcanda dove puntualmente la troverà per l’appuntamento prefissato dal destino.Rimasta vedova, Kit, frastornata, si unirà a una carovana di nomadi tuareg dove diventerà la compagna del capo. Qualsiasi cosa, infatti, è meglio che proseguire da sola. Nel villaggio, sarà rinchiusa alla sommità di una torre, da cui verrà liberata da una delle mogli gelose. Dopo essere stata quasi linciata dagli abitanti di un villaggio, la ritroveremo in un ospedale di Tangeri; da lì verrà accompagnata all’albergo. È il punto di partenza del film, e la chiusura di un cerchio, ma Kit è profondamente cambiata. Lo si legge prima di tutto nei suoi occhi smarriti, nel suo viso abbronzato e stanco. Nell’albergo incontra il narratore, cioè lo scrittore stesso, che le chiede: «Sì è perduta?» domanda a cui risponde positivamente.
La locandina del film si comprende meglio conoscendo queste sequenze finali. Essa mostra un uomo e una donna in piedi in mezzo al deserto, alle loro spalle le linee oblique e sinuose delle dune, i colori sono quelli monocromatici della sabbia. I due sono parte integrante del paesaggio, posti in un vuoto che immaginiamo estendersi oltre la locandina, e che potrebbe essere infinito.
La sagoma del nomade è una macchia scura svolazzante di stoffe, mentre lei è di spalle, bianchissima per contrasto. La donna è nuda, avvolta dal mantello del tuareg che la cinge nel possesso, ma il tutto richiama anche una sorta di nascita da un bozzolo. Il viso non mostra chiaramente il profilo, e quello dell’uomo è coperto dalla testa di lei: di conseguenza entrambi non hanno fattezze. L’ombra stampata sulla sabbia mostra, illusoriamente, una sola persona con un’accensione di luce a lato.
Come interpretarla? Prima della visione del film, l’immagine potrebbe facilmente suggerire una storia d’amore tra una donna caucasica e un tuareg, e in questa supposizione siamo agevolati dalla scritta sulla locandina inglese: “A woman’s dangerous and erotic journey beneath… the sheltering sky” ma, dopo, comprendiamo quanto questa lettura sia riduttiva per un film così complesso.
La mia, tra le molteplici possibili, è che Kit sia stata spogliata di tutte le inutili sovrastrutture occidentali, si sia confrontata con se stessa e non abbia retto alla vista. Il deserto l’ha combusta e l’ha restituita disseccata e svuotata, poiché ciò che l’essere umano teme di più non è soltanto l’incontro con la morte, ma anche quello con la propria anima. Forse, la sagoma del tuareg è lo spirito del deserto stesso, che ha reso possibile la fine interiore della protagonista, ma anche una seconda nascita. E, quindi, l’inizio di una nuova esistenza interamente pronta a dispiegarsi, tutta da creare e vivere.
Cristina M. Cavaliere
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