Anno d’uscita: 1987
Sito web: https://www.petshopboys.co.uk/

Il duo Pet Shop Boys, formato da Neil Tennant e Chris Lowe, ha con il proprio synth pop caratterizzato fortemente soprattutto gli Anni’80 e, in qualche modo, i due componenti ne sono stati i perfetti cantori, con le loro atmosfere danzerecce ma impregnate di una tristezza che ha a che fare con la contemplazione del vuoto.

Le loro espressioni sempre serie, quel che di dandy annoiato, lo stile vocale monocorde di Neil Tennant, quel loro dare l’impressione di trovarsi in un eterno after-party… raccontando di “West End Girls” annoiate, di “Suburbia” e di Paninari italiani.
La loro apparente assenza di presenza scenica, diametralmente opposta all’istrionismo di molti artisti della scena rock, è stata fin dall’inizio una precisa scelta artistica. Minimalisti nelle esibizioni come anche nella cura grafica dei loro dischi e nella scelta dei titoli, una parola basta. Il loro retroterra (Chris Lowe architetto, e Neil Tennant editore di riviste come “Smash Hits”) spiega la loro cura maniacale della facciata, che è anche struttura portante del loro discorso figurativo. Il primo tour fu curato da Derek Jarman morto nel 1994, regista teatrale inglese autore anche di film sperimentali ed eccessivi come “Caravaggio” e “Blue”.
Per i tour successivi cercarono la collaborazione dell’architetto Zaha Hadid anche lei scomparsa prematuramente nel 2016.
Si può dire che l’intero progetto PSB sia un plastico curato nei dettagli per ricreare una miniatura della realtà circostante. Con il fine, come diceva Shakespeare, di «porgere uno specchio alla natura». E la natura da rispecchiare è essa stessa irreale, come un collage composto dai simboli della moderna società mediatica che la raccontano. Viene in mente la Pop Art, il cui primo esempio nasce proprio in Inghilterra negli Anni’50 grazie al lavoro dell’artista Richard Hamilton, con l’opera Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing?” rappresentazione di un interno borghese composto da un collage di corpi e oggetti quotidiani: tutte le componenti di un quadretto familiare dalle forme ideali (marito culturista, moglie pin up, oggetti di cui si vede la marca) ma tutto ridotto a pura rappresentazione di un simbolo consumistico.
Poiché parliamo degli Anni’80, Bret Easton Ellis, altro grande scrittore di quel decennio, utilizza per i suoi romanzi una tecnica di scrittura paragonabile al collage del quadro di Hamilton: il mondo da lui descritto in “Meno di zero” (1985) non è composto da oggetti ma da feticci degli Eighties dove la marca di lusso inghiotte il nome dell’oggetto (occhiali=RayBan, abito=Armani, auto=Porsche).  I giovani protagonisti del libro trascorrono le giornate a fare shopping, a chiedersi se i capelli sono a posto e gli occhiali storti: tutti devono vestire alla moda e indossare i marchi, altrimenti non esistono.
Tutti sono biondi, tutti hanno corpi scolpiti dalla palestra, e la droga scorre a fiumi. Nel 1991 in “Smells like teen spirit” dei Nirvana, Kurt Cobain incarnò i mostri generati da questa passività, gli zombi danzanti al ritmo di “Here we are now, entertain us”. E proprio nel 1991 Bret Easton Ellis chiude il decennio dello yuppismo con l’agghiacciante carneficina di “American Psycho”, in cui un manager di successo è contemporaneamente un mostro senza nemmeno una linea a separare le due personalità.
Questa realtà sembra ormai poter essere riflessa solo nella lama del suo coltello, nei frammenti di uno specchio rotto. E il volto riflesso è proprio quello di Cobain deformato dalla sofferenza, e anche quello del movimento no global che reagisce al materialismo Anni’80 attraverso il rifiuto estremo del no logo.

I Pet Shop Boys invece scelgono di farsi specchio proprio del mondo-logo, per metterne in rilievo l’assoluto vuoto. E recuperano direttamente il riferimento alla Pop Art, intitolando “Pop Art ” una raccolta delle loro canzoni, suddivise in due parti: Pop quelle più commerciali e Art quelle da loro considerate più creative.
C’è in questa scelta tutta la consapevolezza e la cura che i due hanno sempre avuto nel gestire il proprio discorso artistico e che li distingue dalla visceralità presente nell’esempio del grunge sopra citato, diventato moda suo malgrado e quindi vittima di ciò contro cui reagiva. I Pet Shop Boys hanno invece tenuto presente la lezione del minimalismo alla Duchamp (riduzione della realtà, antiespressività, impersonalità, freddezza emozionale, enfasi sull’oggettualità e fisicità dell’opera) abbracciando la semplificazione estrema del logo pubblicitario anziché rifiutarlo. I marchi sono stati da loro fin dall’inizio cercati, costruiti, controllati scegliendo una moda d’avanguardia di abiti fatti su misura da grandi stilisti e il loro look periodicamente modificato e «re-inventato».

Il minimalismo delle loro copertine tanto scarno ed essenziale quanto efficace, sia dal punto di vista del conseguimento artistico che da quello della resa commerciale genera una narrazione visiva fatta di simboli, loghi, marchi, flash. Molte delle loro cover sono dominate dalla presenza quasi ossessiva della coppia, quasi un’icona su sfondo bianco, riprodotta infinite volte in diverse varianti (mezzibusti, figura intera, primi piani), come nell’arte di Andy Warhol dove l’infinita ripetizione delle stesse immagini con diversi colori racconta la monotonia della produzione industriale. Altro riferimento, in particolare per quanto riguarda l’icona della coppia, sono gli artisti visivi Gilbert & George, che pongono loro stessi come chiave rappresentativa delle paure, ossessioni ed emozioni degli individui davanti a temi forti quali sesso, razza, religione e politica in un’ottica che vede l’artista e l’opera d’arte coincidenti: «Essere sculture viventi è la nostra linfa, il nostro destino, la nostra avventura, il nostro disastro, nostra vita e nostra luce».
Si racconta che il duo di King’s Road, abbia chiesto a Gilbert & George di creare degli artwork per un loro disco e loro abbiano gentilmente rifiutato perché «non facciamo mai niente che abbia uno scopo».

Perfetto contraltare a questa ossessivo presenzialismo dell’artista è la sua totale cancellazione, e questo succede in molte illustrazioni degli anni successivi ai primi dischi, dove campeggiano lavori grafici colorati simili a loghi pubblicitari, ed è come se il mondo dei marchi avesse ormai ingoiato l’umano. Le loro figure, la coppia iconica, tornano come fantasmi quasi invisibili sulla front del loro disco più recente, “Hotspot” del 2020.
Per “Actually”, secondo full-length dopo il successo di “Please” la creazione della copertina non fu per niente facile. Da sempre i Pet Shop Boys hanno curato in maniera quasi maniacale ogni dettaglio anche su particolari apparentemente secondari, quali il tipo e lo stile dei caratteri utilizzati per i titoli e le altre scritte, e segnalando loro stessi eventuali errori, preferendo una spietata e immediata auto-critica piuttosto che rischiare anche la minima imperfezione. Un primo tentativo di farsi ritrarre da una pittrice venne scartato come poco efficace, e alla fine la scelta cadde su uno scatto fotografico dal set del video girato per il singolo “What have I done to deserve this”.
Questa scelta creò tra l’altro molte complicazioni, perché lo scatto era destinato alla copertina di “Smash Hits” e ci vollero parecchie telefonate per convincere la rivista a rinunciarvi in favore di un’altra immagine. Ma Il risultato finale dimostra che avevano ragione. Lo scatto fotografico in cui sono immortalati i loro corpi a mezzobusto viene inserito come fosse un ritaglio sullo sfondo (ancora il ritaglio, la brutalità rappresentativa del collage) ma con la base non ancorata al fondo del foglio; risultano quindi sospesi, vaganti in un nulla bianco, vuoto. Un satellite vagante nello spazio.
Le loro due espressioni sono in contrasto: a sinistra Chris Lowe ha le labbra serrate, il viso fissato in un’espressione tesa, impenetrabile; al contrario Neil Tennant ha il volto deformato da uno sbadiglio, rappresentazione di noia ma anche una posa che richiama alla mente l’urlo angosciante del “Ritratto di Innocenzo X” di Francis Bacon che evoca la disperazione di chi si sente prigioniero di una gabbia, del suo ruolo, e non può scappare.
Federica Vitelli

 

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