Anno d’uscita: 2023
Sito web: https://www.facebook.com/7afterband/
È sempre con un certo entusiasmo, frutto di un pizzico di scetticismo e chili di speranza che ascolto un album di un gruppo italiano alle prese con sonorità “estranee” al Bel Paese. Quando sono stato invitato all’ascolto di “Tanze Bat”, non sapevo niente dei 7After, nessun legame di amicizia, niente che potesse in qualche modo influenzare il mio modo di analizzarlo. Ed è stata una piacevole sorpresa.
Esteticamente il lavoro si presenta molto curato, con una immagine di copertina rappresentativa delle sonorità che si incontrano al suo ascolto. Nella mia mente, a partire dalla iniziale “L’orgoglio nazionale” si fa largo anche un certo spirito caro a George Orwell nel suo capolavoro “1984”, dove una società distopica è divenuta ormai realtà. Tema questo che ripercorre il resto dell’Ep, la cover stessa ad opera dell’abruzzese Valerio Paglione, offre una immagine in rigido bianco e nero che rappresenta uno spaccato di un edificio che pare una fortezza, ma verrebbe più da dire una prigione dopo uno sguardo più accurato. Niente è più rassicurante di una fortezza, dove l’individuo è al sicuro da agenti esterni, ma allo stesso tempo una prigionia, dove una sorta di entità superiore (che Orwell chiamò “Grande Fratello”) con occhio critico mutila ogni diversificazione dell’animo umano.
La più grande delle sicurezze è infine vista e vissuta come una gabbia dorata con una sola morale, un solo pensiero uniforme. Nessuna discriminazione, ma non per questo esente da una condanna. Lo avranno anche pensato i 7After dopo aver ascoltato (e per molti versi assimilato) le sonorità dei Joy Division e (in questo caso anche i contesti architettonici) dei Bauhaus, aggiungendo a questi una venatura di rabbia che tanto deve ai sempreverdi Stooges di Iggy Pop.
Quattro tracce rappresentative di questa società attuale che il Paese (da un po’ non più bello) sta attraversando. Uno spaccato sociale di una periferia lontana dalle belle ed appariscenti luci del centro. Scenografia che assurge un’imponenza circoscritta in ambienti notturni, la cui luce che fuoriesce dalle finestre appare più accecante. Una analoga accezione di chiusura e cupezza è desumibile anche dalle immagini dei fotogrammi dei film noir.
Anche se non sono inglesi come le band di Ian Curtis e Peter Murphy e non hanno vissuto il grigiore industriale e la emarginazione di una Detroit “cara” a Iggy Pop e soci, hanno saputo coglierne l’eredità del condanna e ribellarsi, come raccontato in “Roma non c’è più”. Una capitale questa decisamente diversa da quella che descriveva un Federico Fellini nella sua “Dolce vita”, una metropoli caotica, affine alle molte altre che vivono di luce riflessa della loro storia passata, per molti versi incapaci a guardare ad un futuro di prosperità sociale, con storie di emarginazione e rabbia.
Mi ha riportato alla mente il suo ascolto, le immagini in bianco e nero che sono care anche ad un certo David Lynch, nel suo capolavoro “Eraserhead”, contrasti di non-colore estremi, paralleli all’intento dell’artwork che asseriscono una denuncia di una certa alienazione che vivono tutti coloro che non sono in sintonia con quello che viene imposto come “l’ordine naturale delle cose”. Nel frame è istintivo il parallelismo, qui nuovo si ripropone la finestra che sovrasta la composizione dell’artwork, mirabile ora sotto un punto di vista puramente espressionista. L’interiorizzazione che urla al paesaggio.
I tempi dicono che siano cambiati, in verità lo sono solo nei numeri delle date.
Francesco Ippolito