Dopo “soli” 50 film e alla veneranda età di 86 anni, Woody Allen, pseudonimo di Heywood Allen (vero nome Allan Stewart Königsberg), ha annunciato il suo addio alle cineprese.
Andrà in pensione? Giammai! Il grande regista, che disse: «Il sogno come unica strada per la felicità», dopo il prossimo e ultimo film che si intitolerà “Wasp 22” e sarà ambientato a Parigi, dirà addio alla cinepresa e si dedicherà alla scrittura di un romanzo. Il regista, aspirante romanziere ha evidentemente ancora tanto da dire! Ma lo vuole fare in un modo più intimo, isolato, a tu per tu con il lettore, con la scrittura, più solitaria. Noi lo conosciamo come regista, attore, sceneggiatore, scrittore e commediografo statunitense ma la sua carriera è iniziata come dialoghista comico, imponendosi subito e restando immediatamente nella storia per quella sua comicità yiddish e intellettuale.
Con i suoi capolavori filmici ha conquistato quattro premi Oscar (su 24 candidature), quattro Golden Globes, due premi alla Mostra del cinema di Venezia. Capolavori che affrontano i temi più disparati: dalla crisi esistenziale degli ambienti intellettuali, alla rappresentazione spesso autoironica della comunità ebraica newyorkese, dalla critica alla borghesia, fino alla critica del capitalismo.
Nel 1966 sostenne la prima triplice prova da sceneggiatore, protagonista e regista: “Che fai, rubi?” (“What’s up, Tiger Lily?”). Da quel momento la frase: “Scritto, diretto e interpretato da Woody Allen” diventerà la regola, la proporzione divina, la nuova formula magica della commedia americana. Ciò che accomuna le sue pellicole è il fatto che in esse emergano tutte le passioni del regista newyorkese, dalla letteratura alla filosofia, dalla psicoanalisi, alla musica jazz, il cinema europeo, e soprattutto per la sua città natale, New York, dove vive e dalla quale trae continua ispirazione.
Questo è il modo più bello di farsi conoscere dal grande pubblico, mettendo sé stessi nelle pellicole. Da uomo sagace e brillante quale è, ha saputo trasformare le sue debolezze nei suoi punti di forza, sviluppando la sua classica immagine nevrotica, cerebrale e timida che caratterizza ogni personaggio che interpreta. Che poi, dobbiamo dirlo, sembra che interpreti sempre sé stesso. Questo è un fenomeno abbastanza unico. Quando si ha a che fare con i suoi personaggi viene sempre da pensare che la persona Woody Allen nella vita privata sia esattamente così. E forse lo è.
In “Prendi i soldi e scappa” (1969), Allen interpreta Virgil Starkwell, un maldestro rapinatore solitario che la Marina aveva rifiutato nelle sue file, a causa della sua interpretazione troppo erotica delle macchie di Rorschach.
La sua genialità sta proprio in questo: ha avuto il coraggio di mostrarsi al pubblico senza mentire: in “Hannah and her sisters” (“Hannah e le sue sorelle”, 1986) Allen interpreta Mickey Sachs, ex marito di Hannah, un tipo tremendamente ipocondriaco e tormentato dall’idea d’avere un male incurabile. Dopo un check-up medico completo, che attesta il suo perfetto stato di salute, cade preda d’una crisi esistenziale e si tuffa, senza trovarvi conforto, nella religione, provando a convertirsi prima al cattolicesimo, poi agli Hare Krishna.
Che male c’è se poi egli non definisce il suo problema come ipocondria, bensì “Allarmismo” e sentenzia: «Io sono un allarmista: non sperimento malattie immaginarie, le mie malattie sono reali». In “Play it again, Sam” (“Provaci ancora Sam”, 1972) Allen è Allan Felix – critico cinematografico di San Francisco reduce dal divorzio con sua moglie e privo del suo analista in ferie, cerca ispirazione in Humphrey Bogart di “Casablanca”. Ma il fallimento è sempre in agguato.
In “Zelig” (1983), Woody Allen finge di ricostruire la vita di Leonard Zelig detto il “camaleonte”, campione di conformismo, talmente conformista da assumere ogni volta sembianze, modi, anche professione simili a quelli dell’interlocutore del momento (diventa nero in mezzo ai neri, un medico in mezzo ai medici e così via).
Il legame di ogni capolavoro filmico con la psicologia è eclatante e molto divertente: in “Annie Hall” (“Io e Annie”) – film per il quale Woody Allen vinse ben 4 Premi Oscar – interpreta il comico Alvy Singer che si è lasciato con Annie dopo un anno di relazione e cerca di collegare i suoi problemi di depressione e nevrosi, al tracollo della storia. Pensiamo che originariamente il film doveva chiamarsi “Anedonia” (il termine usato in psicologia e psichiatria per indicare l’incapacità di un paziente a provare piacere in circostanze piacevoli), ma tale titolo fu giudicato inappropriato e venne cambiato solo qualche settimana prima dell’uscita del film nelle sale in “Annie Hall” (“Io e Annie”).
In “Manhattan Murder Mystery” (“Misterioso omicidio a Manhattan”) del 1993 Allen chiuso in ascensore (con Diane Keaton) ha un attacco claustrofobico e afferma: «Sono un claustrofobico di fama mondiale! Oh, Gesù! Claustrofobia e un cadavere. Questo è l’en plein del nevrotico».
E così, man mano, andando avanti nel tempo, il genio creativo è sempre rimasto, persino più consapevole, forse. In un crescendo di argomentazioni sempre più vaste, con i suoi personaggi testimonial di questo suo profondo disagio a proposito del quale non smette mai di interrogarsi. Chissà se sulla sua decisione di allontanarsi dal cinema pesano ancora le intricate vicende familiari in essere dal 1992, quando la figlia adottiva Dylan Farrow accusò il padre di averla toccata in modo inappropriato all’età di 7 anni.
Dalla sua parte si schierarono l’ex fidanzata Mia e il figlio Ronan, autore dell’articolo-inchiesta contro il produttore Harvey Weinstein del 2017. Dalla parte del regista, invece, da sempre, il fratello Moses. Gli investigatori non trovarono prove degli abusi e la giustizia diede ragione ad Allen, senza tuttavia che la frattura della sua famiglia si risanasse.
Nonostante le previsioni ottimistiche di Allen sulla caccia alle streghe – sostenne: «Tutte le cacce alle streghe finiscono prima o poi… Tendono a esaurirsi col tempo, si smorzano fino a spegnersi» – e nonostante il tentativo di mettere un punto alle polemiche con l’autobiografia uscita proprio nel 2021, le case editrici non hanno fatto alcuna offerta per accaparrarsi i diritti di pubblicazione del memoir “A Proposito Di niente” (ed. La Nave di Teseo, 2020).
Anzi, molte celebrità che un tempo gareggiavano per prendere parte ai suoi film ora dichiarano di essersi pentiti di aver lavorato con lui. Fra loro, Greta Gerwig, Ellen Page, Evan Rachel Wood, Michael Caine, Colin Firth e Timothée Chalamet, che ha addirittura dichiarato di voler donare i proventi ricevuti da “Un giorno di pioggia a New York” (capolavoro, e non credete a chi dice altrimenti) in beneficenza. Come se non bastasse, è in atto una battaglia legale che vede Woody contro il gigante dello streaming Amazon, al quale chiede ben 68 milioni di dollari di risarcimento.
Periodo difficile insomma per il regista al quale non è stato mai perdonato il sentimento nato con Soon-Yi Previn di 35 anni più giovane di lui e figlia adottiva di Mia Farrow. Sebbene Allen e la Farrow non fossero sposati e Soon-Yi non fosse stata adottata da Allen, la notizia diede scandalo sulla stampa e sui media, visto il ruolo di Allen nelle vesti di compagno della Farrow e di padre di tre dei suoi figli e si discusse a lungo sulle implicazioni e sulla possibilità che la relazione fosse da considerarsi incestuosa. Tale relazione peraltro dura da oltre 22 anni.
Ma occorre non fare l’errore di giudicare un gigante come Woody Allen per le sue vicende private. Ciò che lui ha dato al mondo del cinema è unico e difficilmente sostituibile.
Io onestamente devo dire che i film che amo e ricordo con più ardore si collocano dal 2005 in poi: parlo di capolavori come “Match Point” (2005), “Scoop” (2006), “Sogni e delitti” (“Cassandra’s Dream”) (2007), “Vicky Cristina Barcelona” (2008), “Basta che funzioni” (“Whatever Works”) (2009), “Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni” (“You Will Meet a Tall Dark Stranger”) (2010), “Midnight in Paris” (2011), “To Rome with Love” (2012), “Blue Jasmine” (2013), “Magic in the Moonlight” (2014), “Irrational Man” (2015), “Café Society” (2016), “La ruota delle meraviglie” (“Wonder Wheel”) (2017), “Un giorno di pioggia a New York” (“A Rainy Day in New York”) (2019), “Rifkin’s Festival” (2020). Il pubblico attende il prossimo – e a quanto pare ultimo da regista – “Wasp 22” (2023).
Ci tengo anche a segnalare l’esordio di Allen alle serie TV. Nel 2016 ha scritto, diretto e interpretato una Miniserie televisiva di 6 episodi “Crisi in sei scene” (“Crisis in Six Scenes”), per Amazon Studios. In un’intervista con Deadline, il regista disse poi «di essersi pentito ogni secondo», motivo per il quale la serie stessa si intende conclusa con la prima stagione. Anche la critica non è stata molto benevola con questo suo progetto. É una commedia gradevole, ambientata negli Anni‘60 in cui Woody interpreta Sidney Munsinger, un copywriter di spot pubblicitari, autore di sit-com e romanziere: la sua vita è stravolta dall’irruzione in casa della giovane Lennie Dale (Miley Cyrus), rivoluzionaria bombarola fuggita dal carcere e in cerca di rifugio prima di tentare l’espatrio alla volta di Cuba.
Ora, da un uomo così vivace intellettualmente c’è da aspettarsi che la sua ironia surreale sia trasposta anche nei futuri romanzi, ma è ovvio, il cinema è il canale più diretto per lo spettatore, un romanzo è riservato evidentemente ad un pubblico minore, ma se il suo desiderio è questo, bisogna capire e rispettare la sua scelta.
E ricordarci sorridendo che «È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla TV», (Woody Allen).
Sara Riccio