Foto di Michela Midossi

Questa mia nuova intervista è diretta ad un mio caro amico ed ex-skinhead, Flavio Frezza di Viterbo, personaggio molto attivo nella scena italiana già dalla prima metà degli Anni’90. Voce del gruppo oi!/streetpunk Razzapparte dal 1995 ad oggi, manager del nuovo progetto musicale Unborn nati nel 2015 e dediti ad un ottimo e granitico streetpunk, fondatore del blog “Crombie Media” e coordinatore della rivista underground “Garageland”. È anche autore, curatore e traduttore di diversi libri tra cui l’importante “Italia Skins” (2017), la versione italiana di “Spirit Of ’69” di John Marshall e “Skinhead Nation” sempre del grande Marshall, quest’ultimo tradotto in collaborazione con Letizia Lucangeli. Come autore va anche ricordato inoltre per alcuni saggi sul folkore e sui dialetti della Tuscia viterbese. Flavio ha inoltre una grande passione per il cinema horror, giallo e di fantascienza, con particolare interesse per quei film, anche dei precedenti generi, che trattano anche tematiche punk, skinhead e mod. Lasciamo quindi il compito all’intervista di far conoscere meglio Flavio e tutte le sue molteplici attività e hobby.

Ciao Flavio, finalmente eccoti su Art Over Covers! Premetto che per me è un piacere intervistarti e ti ringrazio per il tuo tempo. La prima domanda che voglio farti, prima di entrare nel vivo di questa intervista è la seguente: perché ti reputi un ex-skinhead?
Sono diventato skinhead nella prima metà degli Anni’90 e ho continuato a considerarmi tale fino a pochi anni fa. Sono ancora attivo nella scena e il mio abbigliamento non è molto cambiato, tuttavia non indosso più capi d’abbigliamento fortemente identificativi come scarponi, bomber, Crombie e via dicendo. Ho smesso di dirmi skin perché, per l’appunto, non sono più immediatamente riconoscibile come tale, tranne che agli occhi di chi è al di dentro di certe cose. A parte le considerazioni stilistiche, ci sono anche altre ragioni, a partire dal fatto che a quarantasette anni di età vivo la sottocultura in maniera differente rispetto a quando ero ragazzo. Inoltre, questa mia passione è stata affiancata da altre attività alle quali dedico gran parte del mio tempo libero, pertanto non credo di poter dire che la sottocultura è ancora il mio interesse principale, anche se è senz’altro una delle (tante) cose che definiscono la mia persona. Detto questo, mi sento ancora uno skinhead ma non credo che il fatto che io mi professi o meno in questa maniera abbia una grande importanza: contano di più le cose che continuo a fare in questo ambito.Sei attivo nella scena italiana già dalla prima metà degli Anni’90 e ti sei fatto conoscere dapprima soprattutto per uno dei tuoi gruppi, i Razzapparte? Puoi parlarci di questa band?
I Razzapparte (https://www.facebook.com/razzapparte) sono nati letteralmente sui banchi di scuola, visto che gli altri componenti frequentavano il mio stesso istituto. Tra l’altro, il primo batterista era il mio compagno di banco. Ci siamo formati nel 1995 suonando un Oi! punk melodico fortemente influenzato dai Klasse Kriminale e dallo street punk inglese. Inizialmente abbiamo sperimentato un po’ con lo ska e con il reggae, discorso che abbiamo ripreso diversi anni più tardi. Complici alcuni cambi di formazione siamo stati insieme ai Five Boots i primissimi a fondere l’Oi! con il NYHC, quando ancora tra rasati e crestati l’hardcore non era in genere considerato abbastanza fico. Oggi siamo ancora attivi e abbiamo da poco registrato un nuovo pezzo che uscirà dopo l’estate.
Parlando sempre di musica, al momento quali sono i generi che preferisci ascoltare? Con il tempo i tuoi gusti si sono affinati? Ascolti anche cose non inerenti alla scena punk e skinhead?
Ascolto sempre la musica di un tempo – Oi!, punk ’77, hardcore, reggae, un po’ di soul e ska – anche se sono diventato più selettivo. Negli anni ho approfondito il mio primo amore – il rap old school – visto che oggi è diventato semplice ascoltare artisti di cui una volta, se mi andava bene, potevo ascoltare un brano o due sulle compilation “fai da te” scambiate per corrispondenza. Lo stesso discorso vale per altri generi che associo al rap, come il funk e – di nuovo – la musica reggae, che ho conosciuto tramite il rap. Inoltre, ho sviluppato un certo interesse per le colonne sonore, soprattutto di genere horror, e mi sono interessato a formazioni post-punk e new wave che prima non mi dispiacevano ma neanche suscitavano più di tanto la mia attenzione. Mi piacciono anche altri generi, ma direi che quelli che ho elencato finora rappresentano la grande maggioranza dei miei ascolti.

Compri sempre regolarmente dischi? Preferisci il supporto fisico?
Compro ancora dischi, soprattutto in vinile, ma anche in questo sono diventato più selettivo, soprattutto per ragioni di spazio. Se compro un disco, è per sostenere la band oppure perché la pubblicazione è molto curata (bella copertina, note e testi all’interno, ecc.). Ascolto la musica soprattutto in macchina oppure quando lavoro al PC, e in questi casi lo streaming è la scelta più pratica. Nonostante ciò, continuo a preferire il supporto fisico, non per nostalgia ma per le ragioni di cui sopra.

Ci sono dei dischi che vorresti in collezione che ancora non hai?
Ce ne sono fin troppi! Devo comunque dire che non ho mai avuto la fissazione per l’originale, e raramente ho acquistato diverse edizioni dello stesso disco, a meno che non si trattasse di qualcosa a cui sono veramente affezionato. “I ragazzi sono innocenti” dei Klasse Kriminale è stato un album fondamentale per la mia formazione, e quando riesco acquisto qualsiasi nuova versione venga pubblicata, e lo stesso vale per i Clash, dei quali ho vari bootleg e spesso più edizioni dello stesso disco. Possiedo molti dischi ma non sono un collezionista: rispetto i collezionisti e ammiro la loro dedizione, ma non fa per me.
Ti piacciono le copertine dei dischi e, per te, quanto sono importanti?
Sono importantissime, soprattutto nel caso del vinile. Un disco non è fatto solo di musica, e spesso l’artwork la dice lunga sui gusti e sull’attitudine delle band. Confesso che in genere evito di comprare dischi con una copertina brutta, soprattutto se poco curati (ad esempio, privi di inserto), a meno che non tenga davvero molto all’album o al singolo in questione. Se la band oppure l’etichetta discografica non si impegna a realizzare un lavoro ben fatto sotto tutti di vista, e non solo sul piano musicale, non vedo perché dovrei preferire l’edizione fisica all’ascolto in streaming, tanto più che – come dicevo – tra dischi, libri, DVD e Blu-ray inizio ad avere seri problemi di spazio. Avendo gestito diverse etichette – e ne ho recentemente fondata un’altra, Crombie Media Music – ho sempre prestato molta attenzione all’aspetto estetico del disco e affidato le copertine a bravi artisti, come i nostrani Alessandro Aloe e Alessandro Palmieri, Giorgio Santucci, oppure il messicano CHema Skandal. Per alcuni anni ho lavorato come impaginatore e nella maggior parte dei casi sono io stesso a occuparmi del layout.
Tra le tue varie occupazioni con il tempo ti sei anche cimentato come autore e traduttore di libri. Nel 2017 è uscito “Italia Skins”, dove tra l’altro mi hai anche intervistato, come ti è venuta l’idea per questo fantastico libro?
L’idea è nata dal fatto che la storia degli skinhead degli Anni’80 era già stata raccontata in maniera egregia da Riccardo Pedrini dei Nabat ma nessuno, fino a quel momento, si era occupato seriamente del decennio che ho vissuto con maggiore intensità, ovvero gli Anni’90. Il libro, edito da Red Star Press / Hellnation Libri, è articolato in due parti: la storia della sottocultura prima nel Regno Unito e poi in Italia, e un’ampia serie di testimonianze da parte di una trentina di skin ed ex-skin che hanno animato la scena italiana a partire dalla fine degli Anni’80 . Visto il rapporto di fiducia con la casa editrice, ho avuto la possibilità di scegliere la foto di copertina: si tratta di uno scatto di Fabrizio “Fritz” Barile, che è tra gli intervistati. La fotografia ritrae volti noti e meno noti della scena italiana ed è stata scattata a Savona nel 1992, in occasione di un concerto dei Klasse Kriminale.
Dopo “Italia Skins” hai tradotto, e fatto l’introduzione, di due libri fondamentali per la scena skinhead: “Spirit Of ’69” e “Skinhead Nation”, entrambi del buon George Marshall. Puoi parlarci di questi progetti e del perché ad un certo punto hai sentito come l’urgenza di tradurre due classici?
La curatela e la traduzione dei due testi di Marshall mi sono state affidate da Hellnation Libri. Si tratta di due testi fondamentali per la comprensione della storia della sottocultura, nonostante alcuni limiti dovuti principalmente al momento in cui sono stati redatti – parliamo dell’era pre-Internet, quando era più difficile ottenere certe informazioni – e a certe scelte redazionali dell’autore scozzese. Tramite i miei interventi introduttivi e ampi apparati di note, ho cercato di precisare e contestualizzare meglio alcune notizie. Per quanto riguarda “Skinhead Nation”, la traduzione è frutto della collaborazione con Letizia Lucangeli, che ha anche tradotto – sempre per Hellnation – l’autobiografia di Roger Miret degli Agnostic Front.
Altra tua grande passione insieme alla musica è il cinema di genere. Quali sono questi generi e perché ti sei appassionato proprio di un certo tipo di cinema?
Amo soprattutto l’horror e il giallo all’italiana, il thriller e la fantascienza. Onestamente non so cosa mi attragga di questi generi, ma posso dire che crescendo ho imparato a comprenderne aspetti che da ragazzino non notavo, come l’eventuale sottotesto sociale o addirittura politico. L’horror politico di questi ultimi anni è molto stimolante, anche se ormai – dopo il successo di ottimi lavori come “The Witch” (2015) (https://www.artovercovers.com/2018/09/04/the-witch/) , “Get Out”(2017) e “Hereditary” (2018) – il filone si sta inflazionando, e certi produttori pensano che per fare un film al passo coi tempi sia sufficiente includere nel cast personaggi neri oppure omosessuali, senza fare una vera disamina delle discriminazioni che colpiscono queste categorie. Il loro è un atteggiamento di comodo, superficiale e di stampo liberal, visto che manca una critica radicale al sistema economico e politico che produce schifezze come il razzismo, la xenofobia, l’omofobia e la transfobia.

Quali sono, secondo te, i miglior film horror che tu abbia mai visto? E quali le migliori locandine? Se ce ne sono chiaramente…
Non mi piacciono molto gli elenchi, prima di tutto perché dipendono molto dal momento, e poi perché rischio sempre di dimenticare qualcosa. Amo molto i film di Lucio Fulci, Dario Argento, Mario Bava, George Romero, John Carpenter e David Cronenberg, ma sono appunto solo i primi che mi vengono in mente. Per quanto riguarda le locandine mi limito a segnalare quelle del nostrano Enzo Sciotti, scomparso lo scorso anno (https://www.artovercovers.com/2022/01/03/enzo-sciotti/).
Inoltre sempre parlando di cinema, so che negli anni hai cercato di scovare quanti più film possibili che riguardassero anche le sottoculture punk, mod e skinhead. Quali sono i migliori o quelli che ti senti di consigliare?
Al cinema e in TV le sottoculture vengono in genere rappresentate in maniera superficiale e distorta, tuttavia questo non scalfisce minimamente la mia curiosità, anzi, trovo alcuni di questi film piuttosto divertenti. In occasione del primo lockdown, ho finalmente avviato una ricerca sistematica sul cinema sottoculturale per un progetto di cui spero di poter parlare più diffusamente nei prossimi mesi. Limitandomi a citare i film skinhead che mi piacciono sul serio, a parte naturalmente “This Is England” (2006) e le successive mini-serie, segnalo il valido “16 Years of Alcohol” di Richard Jobson degli Skids, che aveva vissuto gli sgoccioli dell’epoca original. Tra i bonehead movies, il mio preferito è senz’altro “Romper Stomper” (1992), ma esistono altri film con skinhead white power che per varie ragioni esito a includere in questo filone, come ad esempio lo splendido “Ghost Stories” (2017). Di film con personaggi punk ce ne sono tantissimi. Molti di questi sono usciti negli Anni’80, ma di recente ne sono stati prodotti altri veramente interessanti, come “Bomb City” (2017) e “Green Room” (2015). Quest’ultimo rappresenta una sorta di crossover tra il film punk e il bonehead movie. Un aspetto interessante dell’evoluzione della cinematografia punk è nel fatto che un tempo i punk rocker venivano descritti regolarmente come dei teppisti, mentre oggi vengono dipinti più spesso come vittime. In ambito mod c’è decisamente meno materiale. A parte gli stranoti “Blow-Up” (1966) e “Quadrophenia” (1979), nonché il meno appassionante “Absolute Beginners” (1986), segnalo il curioso “Smashing Time” (1967): anche se può sembrare una commedia un po’ sciocca sulla Swinging London, il film non soltanto documenta in maniera sarcastica la fase più commerciale della cultura mod, ma offre una panoramica classista – nel senso migliore del termine – sulla Londra di quegli anni.
Sei fondatore dell’ottimo blog Crombie Media https://blog.crombiemedia.com/. Di cosa parli nel blog e di cosa si occupa in generale?
Ho fondato il blog agli inizi del 2018 per coordinare e promuovere le mie attività in ambito sottoculturale e musicale. Ben presto, si sono uniti a me Letizia Lucangeli e le mie vecchie conoscenze Alessandro Aloe e Mattia Dossi, ma l’elenco dei collaboratori è più vasto. Il blog è incentrato sulle sottoculture mod, skinhead e punk e su altre scene connesse o derivate, nonché sull’incontro tra gli stili giovanili e la cultura pop. Ci occupiamo di musica, libri, film e fumetti.

Ultimamente ho avuto tra le mani la rivista Garageland, di cui tu sei coordinatore. Di cosa si tratta e perché secondo te ha senso oggi nel 2022 produrre qualcosa di cartaceo in piena esplosione internet e dei social?
Internet e social sono importantissimi per la diffusione di notizie, filmati e immagini ma in genere si prestano poco agli approfondimenti. Una rivista, invece, non soltanto soddisfa chi è ancora legato all’oggetto fisico, ma permette di analizzare a fondo determinati argomenti, talvolta delicati e poco adatti alla diffusione sui social. Da queste considerazioni è nata la collaborazione tra Crombie Media e gli amici di Hellnation Libri che ci ha permesso di dare vita alla prima rivista italiana dedicata interamente alle sottoculture, ai generi musicali connessi e a un certo cinema di culto.
Foto di Fabrizio Barile

Un altro tuo interesse particolare sono il folclore e i dialetti della Tuscia Viterbese, parlaci dei saggi che hai scritto in merito e perché.
La cultura tradizionale della Tuscia mi ha sempre incuriosito, ma solo nel 2007 ho iniziato a interessarmene in maniera seria, seguendo il metodo accademico e facendo inchieste sul campo. Questa terra è un crocevia di influenze linguistiche, tanto da poter essere considerata una zona di transizione tra Toscana, Umbria e Roma, perciò le parlate tendono a variare molto anche a distanza di pochissimi chilometri. Inoltre, lo studio dei dialetti, delle tradizioni orali e di altre manifestazioni folcloristiche si presta molto a un approccio di classe. Sono autore di studi e pubblicazioni su tradizioni come la tiratura del solco dritto e il testamento del carnevale e mi sono occupato in maniera approfondita di alcuni poeti dialettali, di determinati fenomeni linguistici e di particolari settori del lessico (allevamento bovino, cerealicoltura, giochi da osteria). Mi occupo in particolare dell’Alto Viterbese, sia per ragioni affettive che per motivi pratici, visto che è la zona di provenienza della mia famiglia.

Tornando alla musica, so che oltre ad essere frontman dei Razzapparte, sei manager del gruppo street punk Unborn, che cela dietro di sé un alone di mistero, dato che i componenti del gruppo non si fanno mai vedere in volto. Parlaci di questo progetto e del perché così tanto mistero sui componenti del gruppo!

Foto di Michela Midossi

Gli Unborn sono nati dall’idea di combinare la musica Oi! e street punk con l’immaginario horror e fantascientifico. Molti film di questi generi sono veicoli di messaggi politici e sociali radicali, vicini alle idee della band. Si pensi ad esempio a “Reazione a catena” (1971), che qualcuno ha definito «il marxismo secondo Bava». Gli Unborn hanno dedicato un pezzo al film, intitolato “Ecologia del delitto” (all’inizio, il film uscì con questo titolo) e incluso nell’album “Slasher – Street Punk Anthems”. Io mi occupo della promozione della band e – tramite Skinhead Sounds prima e Crombie Media Music oggi – ho prodotto la maggior parte della sua discografia, con l’inclusione del nuovo singolo Visitatori: in questo caso, si tratta di un omaggio alla mini-serie “V – Visitors”, che era incentrata sulla guerra fredda e sul rischio di un’involuzione autoritaria dei paesi occidentali. Come si vede, si tratta purtroppo di tematiche molto attuali. Anche in questo caso, ho affidato la copertina ad Alessandro Aloe, che ha fatto un ottimo lavoro. La prima formazione degli Unborn era composta da persone molto conosciute in ambito punk, e l’idea delle facce coperte era nata dalla volontà di proporre la band per ciò che era, e non come l’ennesimo progetto di questo o dell’altro componente. Inoltre, il look si sposa perfettamente con i testi del gruppo.
Siamo giunti alla fine, lascio a te la conclusione e/o i saluti o qualunque cosa tu voglia dire e/o consigliare a chi ci legge o a chi fa parte delle sottoculture di cui ti occupi. Grazie, Flavio!
Grazie a te e ad Art Over Covers per esservi interessati alle mie attività e complimenti per il lavoro che state facendo. A presto!

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