Anno d’uscita: 2022
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Spesso un artwork allusivo, di non immediata comprensione, è il necessario correlativo oggettivo di un lavoro discografico complesso e dalle molteplici sfaccettature. È il caso di un album come “La prigione dei pupazzi” di Gabriele Priolo, il cui contenitore e contenuto sono in perfetta armonia: l’immagine raffigurata sulla cover è cromaticamente vivace, raffinata e misurata, così come i brani del disco, per quanto differenti tra loro, costituiscono un percorso musicale articolato ma coerente, quasi geometrico per la cura e l’attenzione delle scelte stilistiche. Il full-length, il quarto pubblicato dall’artista, è uscito l’8 aprile 2022. Ricordiamo che il cantautore genovese ha esordito nel 2014 con “Giuseppe degli spiriti”, un concept basato sul personaggio del conte Cagliostro; l’anno seguente ha pubblicato “Occidente”, ricco di riferimenti letterari, e nel 2018 “Poetry”. Tutti i suoi lavori hanno ricevuto grandi apprezzamenti dalla critica. Da segnalare la scelta del musicista di utilizzare, come copertina di “Occidente”, il quadro di Edvard Munch “Sera sul viale Karl Johan” (1892), a testimonianza della sua grande sensibilità nei confronti dei capolavori della pittura.
Nell’affrontare il non semplice compito di analizzare l’artwork di un album, specialmente se esso non si presenta come figurativo, il contributo dell’artista stesso che l’ha concepito è senz’altro fondamentale. Proprio perché la foto prescelta per la cover de “La prigione dei pupazzi” è piuttosto enigmatica, è Priolo stesso che ha voluto spiegarne la genesi: «Volevo un’immagine che illustrasse il tema dell’album in maniera non didascalica né egoriferita, che fosse d’impatto, in modo da imprimersi con le sue linee e le sue tinte nella mente dell’ascoltatore». Il musicista racconta poi come un giorno abbia deciso di fare una passeggiata lungo una via dietro la casa dei suoi genitori a Rapallo, dove da bambino si recava con il suo cane. In questa stradina si trova, per dirla con le sue parole, «una villetta un po’ eccentrica, che architettonicamente può vagamente rimandare alla casa sulla cascata di Wright o a certi quadri neoplastici di Mondrian».
Sul garage dell’abitazione si trovavano dei pannelli di alluminio, dipinti con figure geometriche, che negli anni, a causa degli agenti atmosferici, si erano deteriorati. Racconta l’artista: «Qualcosa è restato, ma slavato, e addirittura sono apparse figure del tutto aliene rispetto all’estro del pittore: è come se la Natura avesse preso colori e pennelli e operato per allestire una nuova, straniante scenografia». Così, affascinato dall’aspetto casuale e al tempo stesso attraente di ciò che era rimasto delle decorazioni sulle lastre metalliche, Gabriele è tornato sul posto più volte per fotografarle. In seguito, osservando gli scatti, ha pensato di immortalare alcuni particolari apparentemente insignificanti dei pannelli, mettendosi a pochi centimetri di distanza da essi, utilizzando allo scopo una scaletta sgangherata abbandonata sul tetto del garage. Il musicista continua il suo racconto: «Posizionato su questo trespolo, ho concentrato la mia attenzione su linee, macchie di colore, graffi, segni, lasciando al caso la bontà effettiva delle mie inquadrature». Dopo questa seconda sessione di scatti, Priolo si è dedicato per alcuni giorni ad altre attività, lasciando sedimentare i sentimenti e le sensazioni evocate dall’esperienza. Ha quindi selezionato le immagini migliori e le ha sottoposte all’attenzione di un suo collaboratore, il bassista Giuseppe Lamanna, anch’egli dotato di una solida preparazione artistica.
Di fatto è stato quest’ultimo a selezionare lo scatto che poi è stato utilizzato per l’artwork del disco, individuando in una delle immagini una sorta di figura di donna. Questa la conclusione del cantautore: «La prigione delle nostre case, cioè la nostra vita quando è costretta da mille preoccupazioni o situazioni al limite della fantascienza – basti pensare alla pandemia – a ripiegarsi su sé stessa, è stilizzata in questa fila di parallelepipedi che s’affastellano contro un cielo sanguigno al tramonto. In una trasparenza d’interni ecco una sagoma femminile che sembra scrutare l’orizzonte, un orizzonte di speranza e di fuga per uscire da impedimenti, vincoli e costrizioni e tornare a vivere davvero e a progettare il futuro.»
I particolari rappresentati in questa rappresentazione figurativa potrebbero ricordare, per i volumi squadrati e per le tonalità di colore, alcuni aspetti dei paesaggi cubisti di Picasso e di Braque. Un esempio significativo può essere rappresentato da “Case a l’Estaque” di Georges Braque (1908), una veduta dell’Estaque, rilievo collinare nel sud della Francia, in cui le case e gli alberi sono ridotti a netti volumi geometrici evidenziati da pochi e spenti colori. L’idea sottesa al concept discografico non è dissimile: se nel Cubismo l’artista, spostandosi nello spazio, percepisce diversi aspetti della realtà introducendo nell’immagine l’idea di tempo, che accompagna ogni movimento, il lavoro del cantautore genovese è una sequenza di brani che, guardando alla vita e al reale da molteplici punti di vista, si dipana lungo un percorso cronologico.
Nei quadri degli artisti cubisti la rappresentazione dell’esistente è “sintetica”, poiché sintetizza i piani prospettici compresenti nella percezione differita nel tempo. La realtà è scomposta e poi ricomposta sulla tela. Non c’è più distinzione tra oggetti e spazio e il volume viene scomposto in piani. Qualcosa di simile accade in questa raccolta di inediti, idealmente divisa in tre momenti – passato, presente e futuro – che però dialogano e convivono. Diverse canzoni raccontano la Liguria, terra natale dell’artista, tra ricordi infantili (“Io”), suggestioni contemporanee (Quaalude), le rovine architettoniche del lazzaretto di Bana evocate nella stessa title track, “La Ruta” di Camogli e gli antichi versi in dialetto milanese di “Dra Mort”. Due brani, “La bimba” e “L’uomo”, sono costruiti su sonorità orchestrali barocche e su liriche che evocano la poesia bucolica dell’“Aminta” di Torquato Tasso e dell’“Arcadia” di Jacopo Sannazaro. Le ultime quattro tracce, futuribili ed elettroniche, sono composizioni appartenenti al genere “Disruptive”: in esse vengono utilizzate voci campionate, un lessico avveniristico e tecnologico e una sintesi di miscele timbriche inedite con una poliritmia complessa.
Dalla nostra prigione, cioè dalla gabbia fisica o mentale che le circostanze ci impongono o noi stessi costruiamo, si può e si deve evadere: l’artista è testimone del disagio della contemporaneità, ma esprime anche speranza nel futuro. Anche se i nostri attuali modelli di vita non corrispondono più alle intime ed autentiche esigenze dell’essere umano, che è in balia di logiche “commerciali” che ne limitano la libertà, l’arte può offrire una via d’uscita. Questo, dunque, è il fil rouge che tiene legate le quattordici tracce del disco ed esso viene espresso, sia pure in maniera estremamente allusiva e personale, nell’immagine di copertina.
Maria Macchia