Niccolò Falsetti è un grossetano doc e lavora come regista, autore e sceneggiatore dal 2010. Ha da poco terminato le riprese del film “Margini”, di cui è anche sceneggiatore insieme all’attore, anch’esso grossetano, Francesco Turbanti. Ha scritto per Mondadori il romanzo “Forse Cercavi” insieme al collettivo Zero di cui ci parlerà nell’intervista. Cresciuto come tanti in una città di provincia dove gli sbocchi per emergere sono pochi è stato il punk rock il modo in cui Niccolò ha espresso i suoi umori e frustrazioni, mettendo su con altri ragazzi il gruppo PEGS, tra alti e bassi tutt’ora in attività. E credo che il cambiamento in lui, lo dico senza falsa modestia, sia iniziato frequentando il mio negozio, Rudeness, vera fucina di idee per tutti quei ragazzi che come lui, e me, non si sentivano “omologati”. E penso che l’idea di girare poi Margini, almeno l’embrione, sia partita proprio tra le mura di questo shop che è un negozio normale solo all’apparenza. Dato che personalmente lo conosco benissimo, magari voi un po’ meno, lascio alle domande il modo di farvelo conoscere meglio.
Ciao Niccolò e benvenuto su Art Over Covers! Iniziamo a raccontare dove sei cresciuto e quali sono le tue passioni.
Sono nato e cresciuto a Grosseto, in questa splendida e stagnante cittadina di provincia in cui ho coltivato, in forma più o meno embrionale, tutte quelle che sono le mie passioni tutt’ora. Il primo amore in ordine cronologico è stato sicuramente il calcio. Poi l’estate di enorme cambiamento è stata quella del 2001. Avevo 14 anni e stavo per iniziare il liceo classico. A Luglio ho assistito al primo macro-trauma mediatico di quell’anno, il G8 di Genova, e la terrificante morte di Carlo Giuliani. A settembre l’attentato a New York e qualche mese dopo l’inizio della guerra in Afghanistan. Sono stati mesi cruciali per la nascita primordiale della mia (al tempo confusissima, come è sano che sia a 14 anni) coscienza politica. Da lì, durante il liceo, il fiorire dell’amore insanabile per il cinema e l’incontro accecante con il punk. Tutti elementi che hanno influenzato radicalmente il mio percorso e che fanno parte tutt’oggi della mia quotidianità.

Quando hai deciso di formare una band e perché?
Io e il mio amico fraterno Francesco Turbanti volevamo fare un gruppo perché il punk era diventato improvvisamente tutto quello di cui parlavamo, di cui leggevamo e, in maniera quasi assoluta, l’unico genere musicale che ascoltavamo. Fondamentalmente però tutto è iniziato perché soffriamo entrambi la stasi e c’è sempre piaciuto poco stare seduti a guardare. C’è stato un punto di svolta preciso però. Francesco faceva già parte di un gruppo punk rock, i 1Shot1Kill, assieme al nostro amico Benedetto Zanaboni, che invitammo a suonare alla nostra assemblea di istituto alla fine di un’autogestione. Bene e Fra mi chiesero di cantare “Spazi di libertà” una cover dei Los Fastidios. Io ero elettrizzato, come se debuttassi a San Siro e, in maniera goffamente punk, finii per cantare malissimo, soprattutto la prima parte. Ma il fomento a quel punto era inarrestabile. Iniziai a cantare come seconda voce nei 1Shot e iniziammo a voler creare un gruppo nostro più streetpunk. Non sapevamo suonare, ci mancavano due quarti di gruppo ma in un paio di mesi abbiamo rimediato i pezzi mancanti e ci siamo chiusi in sala prove a imparare come si suona insieme. Erano appena nati i PEGS, la nostra band che sopravvive al cinismo del tempo da quasi vent’anni e che è composta da quattro amici legatissimi che non si sono ancora arresi all’età.

Come tanti ragazzi “non omologati” anche tu hai frequentato Rudeness quando vivevi in pianta stabile a Grosseto. Ti ha cambiato frequentare questo posto? E se si come?
Entrare in quel negozio mi ha cambiato la vita e questo è indiscutibile. Quando sono entrato da Rudeness la prima volta avevo i capelli lunghi, ascoltavo di tutto in maniera confusa e bulimica e non sapevo neanche cosa fosse uno skinhead. David di Rudeness ci ha fatto da padrino, guidandoci all’ascolto delle infinite variazioni di punk, di ska e di reggae, aiutandoci a reperire i dischi e i vestiti e facendoci capire come funzionava quella sottocultura. “Babbo Bardelli” era sempre in prima fila a organizzare eventi e a sbattersi per fare cose a Grosseto e in Italia. Rudeness era molto frequentato da chiunque avesse avuto a che fare con lo skinheadismo, col modernismo, con il punk e con l’hardcore e anche da alcuni ragazzi della Curva Nord del Grosseto e spesso meta di pellegrinaggio da fuori città. A forza di ritrovarci abbiamo incontrato gli altri gruppi punk della zona e abbiamo capito che avremmo potuto iniziare a fare concerti in provincia. Non è un caso che proprio da Rudeness abbiamo creato la As One Crew, il collettivo di gruppi punk di Grosseto che per qualche anno è stata la nostra vita, senza se e senza ma.
Oltre al cinema, argomento che tratteremo dopo, sei anche un appassionato di musica, che generi musicali prediligi?
Il punk e le sue mille derive sono tutt’ora il mio genere prediletto. Ho sempre ascoltato molto cantautorato, rapito dalla capacità di certi autori di scrivere testi come se fossero poesie ma senza mai tralasciare la dignità emotiva della canzone. Ho ascoltato tanto grunge e fuori dal punk apprezzo cose assolutamente random se viste fra di loro che possono andare dal brit-pop al rap, dall’indie inglese ad alcune cose del mainstream contemporaneo italiano. Visto da una prospettiva punk, il mio guilty pleasure recente è ascoltare Franco126.
Ricordi ancora il primo disco che hai comprato?
Il primo disco in assoluto è stato “Hanno ucciso l’uomo ragno” degli 883 in audiocassetta (link alla recensione sulla copertina: https://www.artovercovers.com/2018/04/01/ucciso-luomo-ragno-883/ ) Età: sei anni. Super Max nazionale (che anni dopo, sul set di un suo videoclip, ho scoperto essere un fan dei Nabat) è stato anche il primo che ho visto dal vivo. A cavallo fra elementari e medie è stato l’autore principale della colonna sonora della mia vita preadolescenziale. Nel frattempo era nato Napster e un sacco di roba di ogni tipo l’ho ascoltata tramite le compilation che mi facevano i miei amici, perché in casa mia il PC è arrivato abbastanza tardi. Dopo gli anni d’oro di Pezzali & Co. ricordo ancora l’emozione di mettere a scaricare “Narcotic” dei Liquido e di potermela ascoltare il giorno dopo, per sempre, senza averla pagata. Poi ho iniziato a voler avere dischi originali e, ahimé, quelli erano gli anni d’oro del fottuto compact disc. Iniziai a risparmiare le paghette per comprarmi i primi cd. E in ordine cronologico, anni dopo gli 883, sono arrivati “Nevermind” dei Nirvana e “Out Come The Wolves” dei Rancid, che mi comprò un amico di Roma per diciassettemila lire perché a Grosseto non si trovava.

Parlando di copertine, quale pensi che siano gli artwork più belli nel mondo della musica? E i più bizzarri, secondo il tuo punto di vista?
Domanda complicatissima. Posso dirti che fra le mie preferite ci sono sicuramente quelle firmate da Raymond Pettibon per i Black Flag, gli OFF! o i Sonic Youth. Sicuramente fra le più potenti metto il dente esploso che fa da cover a “Tutti a pezzi” dei La Crisi, la cover dello split EP di Coloss e Die!, i martelloni incrociati dietro al cuore in fiamme di “Working Class Heroes” dello split fra Agnostic Front e Discipline, la magia in bianco e nero della foto di “Parlami ancora” dei Kina e l’eleganza di quella di “Quadrophenia” degli Who. Fra gli artwork bizzarri mi viene in mente la cover di “Dirty”, dei Sonic Youth.
Che importanza ha per te la copertina di un disco? Pensi che sia un elemento fondamentale per un full-length avere una immagine accattivante?
Penso ovviamente che un album si faccia con le canzoni ma che la sua copertina non debba mai essere percepita come un corpo estraneo. Un disco, nella sua materialità, parla anche attraverso l’immagine della sua cover. Trovo un’occasione irrinunciabile per un gruppo o un musicista quella di rappresentare visivamente l’anima di un disco e spesso la cosa viene trattata con una superficialità che per me, da fruitore, è quasi insopportabile. Spero che anche ora che la musica è sempre più affidata ai venti delle caotiche praterie delle piattaforme digitali, si insista a fare delle belle copertine, perché il loro valore è immortale.

Nel 2014 con il Collettivo Zero hai scritto un romanzo edito da Mondadori “Forse cercavi”. Parlaci un po’ di questa esperienza.
È nato tutto perché Mondadori ci ha chiesto di scrivere un libro che parlasse di una campagna web che avevamo fatto “Giovane sì, #coglioneno” in cui fondamentalmente sfottevamo chi ti offre di lavorare gratis solo perché fai un lavoro creativo. Noi avevamo una storia che volevamo far diventare un film (e che tutt’ora vorremmo arrivare a girare in realtà) e abbiamo rilanciato, portandoci a casa l’occasione di pubblicare un romanzo. Il lavoro è stato stimolante e molto libero. Abbiamo avuto un editor (Alberto Gelsumini) bravissimo, attento e paziente. L’unica nota dolente, a proposito, è stata proprio la copertina.
Ci tenevamo molto, visto che non apprezziamo tralasciare i dettagli e cerchiamo di non essere mai superficiali, ma non siamo riusciti a convincere delle nostre idee il Marketing di Mondadori e le nostre proposte purtroppo sono state praticamente bocciate tutte, sempre per ragioni commerciali che a noi tornavano poco. Certo, viste le vendite del libro, che non è stato esattamente un best-seller, non so se avevamo ragione noi ma sicuramente qualcosa non ha funzionato. Ciononostante siamo molto contenti di quel progetto e molto fieri di aver pubblicato un romanzo che nel testo è assolutamente fedele alle nostre intenzioni, al di là  delle ovvie ingenuità di un libro di esordio, e che è stato comunque apprezzato.
La tua seconda vocazione è il cinema… come è iniziato il tuo rapporto con la settima arte?
A scuola, a Grosseto, grazie al mio professore di storia dell’arte, Alessio Brizzi, e al cineforum che faceva il pomeriggio e a cui avevo iniziato ad andare già quando lui non era ancora un mio docente. Con Alessio siamo diventati amici e ci siamo scritti, visti e sentiti spesso per parlare di cinema, dei nostri progetti e di tante altre cose. Gli devo molto anche se lui pensa di aver solo aperto una porta sulla vastità dell’universo cinematografico, perché quando parlava di un film sentivo una passione vicina, anche se la mia, al tempo, era assolutamente acerba.

Chi sono i tuoi autori, registi o attori preferiti?
È un’altra domanda un po’ ostica, perché chi ama il cinema ama un firmamento di autori molto vasto di solito con motivazioni molto diverse. Diciamo che ci sono autori che hanno fatto film che amo vedere e rivedere. Fra i mostri sacri citerei senza paura di essere banale Hitchcock, Spielberg, i fratelli Coen, Scorsese e Tarantino, con pesi e valori diversi ovviamente, perché hanno l’ineguagliabile pregio di aver fatto alcuni dei film che ho visto più volte in vita mia, senza mai stancarmi di rivederli. Fra gli italiani nessuno raggiunge neanche lontanamente l’amore sconfinato che provo per i film di Mario Monicelli anche se mi piacciono molto i lavori di Rossellini, di Luigi Comencini, di Elio Petri e di sua maestà Sergio Leone. Devo confessare che fra gli autori che preferisco ce ne sono alcuni che invidio tantissimo per le loro abilità: ad esempio le capacità di Ken Loach di applicare un metodo unico e di dirigere con una crudezza e una credibilità inarrivabile, la leggerezza con cui Paul Thomas Anderson ha diretto i suoi primi film (Boogie Nights su tutti), il carattere di Larry Clark al limite del cinismo, la capacità di alcuni autori koreani di strutturare storie incredibili o la confidenza totale che dimostra uno come Xavier Dolan con il linguaggio del cinema, fin dal suo giovanissimo esordio. E fra questi non posso non citare Shane Meadows, che invidio tantissimo (di un’invidia sana ovviamente) per aver creato quel gioiello che è “This is England” – tanto il film che la serie.

Sono da poco terminate le riprese di “Margini”, film che è la tua opera prima interamente girato a Grosseto. Quando ti è venuta l’idea di girarlo e con chi hai collaborato alla nascita di questa idea?
Tutto è nato in simbiosi con Francesco Turbanti. Otto anni fa pensammo di provare a scrivere un adattamento di Costretti a Sanguinare, il romanzo di Marco Philopat sulla nascita del punk in Italia. Abbiamo provato a metterci le mani ma eravamo veramente acerbi di sceneggiatura e non avevamo idea della difficoltà di debuttare con un film in costume. A malincuore passiamo oltre, convinti principalmente dal fatto che sentivamo il bisogno di raccontare la contraddizione della provincia negli anni in cui ci avevamo sguazzato noi. E il punk da quelle parti ha un sapore dissonante, sembra quasi gratuito, nonostante segni così a fondo le vite di chi ci passa attraverso. Abbiamo trovato una produzione appena nata i cui obiettivi erano allineati con i nostri e ci siamo messi a scrivere. E dopo tanto tempo e tante sportellate siamo riusciti a fare il film che volevamo.
Vuoi raccontarci la trama di questo lungometraggio? Ovviamente senza spoiler!
È un film sul provarci, perché racconta la storia di un gruppo punk di provincia che si mette in testa di organizzare un concerto nella loro città. Per un caotico mix di fattori, tutti strettamente provinciali, i protagonisti si ritrovano in mezzo a mille casini e con un’importante hardcore band di Boston in arrivo.

Che aspettative ti sei prefissato dopo l’uscita di “Margini”?
Direi nessuna. Forse per scaramanzia, forse perché appartengo a una generazione che è tristemente disabituata a farsi delle aspettative. Il futuro è un concetto del passato.

La musica in questo film credo sia fondamentale. Il punk ha influito anche nel tuo modo di lavorare nel cinema?
Sicuramente. E ancor di più ha influito sulla genesi e sullo spirito di questo film. La colonna sonora di “Margini”, non a caso è composta quasi esclusivamente di brani punk. Se hai un gruppo e ascolti questo genere e vivi in una piccola città lontana dal centro delle cose, il punk diventa la colonna sonora della tua vita. E volevamo che fosse così anche per i protagonisti del film. Compaiono nomi di band che hanno fatto la storia di questo genere in Italia e nel mondo e il supporto della scena è stato fondamentale davvero. In particolar modo l’appoggio di Alessandro Pieravanti del Muro del Canto che ha curato l’intero progetto di colonna sonora, assieme alla preparazione degli attori che nel nostro film suonano davvero (il punk non si fa coi playback, neanche al cinema) affiancato da Maurizio de Gli Ultimi e quello di Luca, Fabrizio, Damiano, Andrea e Matteo dei Payback. La cosa che ci ha riempiti maggiormente di orgoglio però è stato il riconoscimento delle dinamiche di progettazione dal basso che io e Francesco abbiamo sperimentato in prima battuta proprio grazie al punk e al do it yourself. Siamo stati per anni a sbatterci per organizzare concerti dalle nostre parti e quell’esperienza ci ha insegnato tanto, soprattutto perché abbiamo potuto sbagliare tante cose, sia nei meccanismi più logistici che nelle relazioni umane. Ecco, diciamo che abbiamo sempre pensato che questo progetto in particolar modo doveva rispecchiare questo modo di lavorare insieme, coscienti al contempo del fatto che il cinema è un’industria e non possiamo fingere che fare film non richieda importanti risorse e che non ci siano delle logiche di mercato dietro a qualsiasi produzione, per quanto piccola o indipendente. Il vantaggio delle produzioni a basso budget però, soprattutto in un film d’esordio, è che lasciano ampi spazi di reinterpretazione dei rapporti di lavoro, spazi di libertà creativa e artistica, spazi per immaginare nuove possibilità di fare un’arte così congenitamente collettiva come il cinema. E il regista, soprattutto in un piccolo film, è il responsabile del disegno di questa gestione del lavoro. La mia fortuna è stata avere appiccicate addosso le dinamiche punk (che è sempre prima uno state of mind e poi un genere musicale), averle condivise con il mio compagno di viaggio Francesco e aver incontrato dei giovani produttori (Alessandro Amato e Luigi Chimienti di dispàrte) allineati con questo modo di pensare e con la stessa nostra voglia di lavorare in maniera nuova.
Le locandine sono indubbiamente una forma di espressione… Pensi che il poster di un film abbia rilevante importanza per la presentazione di una pellicola? La locandina di “Margini” come è nata?
Il poster di un film per il cinema è sempre importante. È uno spiraglio sul film, deve avere una dignità visiva propria, sussurrare allo spettatore come una sirena che quello è il film che deve vedere quella sera e, attraverso un linguaggio diverso, tradurre ed esprimere l’anima della pellicola. Senza dire niente, deve dire tutto, in un solo fotogramma. La locandina di “Margini” al momento è una locandina privilegiata, figlia della matita di un ragazzo di Roma che viene dal punk, un certo Zerocalcare. Abbiamo incontrato Michele al Forte Prenestino a Roma grazie a una band che ascoltiamo molto, Gli Ultimi. Gli abbiamo raccontato il film e gli è piaciuto molto. Da quel momento (quando risponde al telefono), è stato sempre super collaborativo e ci ha dato una grossa mano, disegnando per noi una locandina che fa a nostro avviso esattamente quello che dico poco sopra.

Secondo te qual è il miglior poster cinematografico che sia mai stato realizzato per un lungometraggio?
Lapidariamente penso che il capolavoro totale sia il poster di “Arancia meccanica”. Lasciami però menzionare una manciata di titoli che hanno locandine da museo, perfette per i film che rappresentano: “Lo squalo” di Spielberg, “Blow Up” di Antonioni, “Vertigo” e “Nodo alla gola” (titolo originale Rope) di Hitchcock, “Apocalypse Now” di Coppola, “Taxi Driver” di Scorsese, “Il mucchio selvaggio” di Peckimpah, “I guerrieri della notte” di W. Hill, “I soliti Ignoti” di Monicelli, “L’esorcista” di Friedkin, “Fargo” dei fratelli Coen, “Rocky Balboa” di Stallone e “1997 fuga da New York” di Carpenter. La mia menzione speciale va però a uno dei film che amo di più in assoluto: “L’odio”, di Kassovitz.Ndr: alcune locandine qui menzionate sono state recensite e sono leggibili ai seguenti link:
https://www.artovercovers.com/2020/07/03/lo-squalo/
https://www.artovercovers.com/2020/11/27/taxi-driver/
https://www.artovercovers.com/2017/03/15/il-mucchio-selvaggio/
https://www.artovercovers.com/2017/10/05/lesorcista/
https://www.artovercovers.com/2017/01/25/1997-fuga-new-york/
https://www.artovercovers.com/2020/11/27/taxi-driver/

Prima di “Margini” a cosa hai lavorato? 
Diciamo che non avendo fatto le scuole che contano ho scelto di iniziare a fare progetti miei per capire a fondo il mestiere che avevo scelto di voler fare e ovviamente per crearmi un minimo di curriculum. Fortunatamente, poco prima di laurearmi, ho incontrato Stefano De Marco, un ninja della post-produzione, con cui abbiamo iniziato a scrivere insieme mille progetti mai venuti alla luce e in contemporanea una manciata di cose che siamo riusciti a concretizzare. Fra queste fortunatamente alcune sono riuscite molto bene, ci siamo comprati un po’ di attrezzatura e abbiamo iniziato a girare piccoli spot per il web per pagarci l’affitto a Berlino, dove nel frattempo eravamo andati a vivere e lavorare insieme, sotto il nome collettivo di ZERO. Abbiamo imbarcato un terzo pilastro, Alessandro Grespan, genio e regolatezza (la mancanza della “s” non è una dimenticanza) e dopo un documentario sull’Erasmus e una campagna web andata virale, abbiamo iniziato a lavorare a produzioni più importanti e a realizzare tantissime cose, fra cui un romanzo e un racconto. Da qualche anno poi ho iniziato a collaborare con i Manetti Bros., a cui sono molto legato e a cui devo davvero tanto. Mi hanno dato davvero tantissima fiducia, tanto che hanno deciso di affiancarci anche nella produzione di Margini.

“#Coglione No!” Spiega ai lettori cosa significa!
Significa fondamentalmente che non bisogna farsi prendere per il culo. È stata una campagna web che abbiamo scritto e realizzato con ZERO e in cui volevamo ironizzare sulla triste tendenza di proporre a chi fa lavori creativi progetti senza budget. In pochissimo tempo la campagna ha avuto davvero un richiamo enorme, un’ondata di attenzione che ci ha cambiato la vita, aprendoci porte che non ci sembrava vero di poter varcare. Il suo successo però, tradiva da subito un’inquietante stonatura. Dietro a tutte quelle visualizzazioni c’era una densa nube di frustrazione, una generazione di precari e freelance che, condividendo il video, in qualche modo dichiarava di aver vissuto quella scena ridicola. E nel breve dibattito che ne era scaturito si parlava tanto delle condizioni di lavoro di chi, sviluppata una professionalità dopo una fisiologica fase di apprendistato, finiva a negoziare per budget ridicoli o a sentirsi deriso per rifiutarsi di lavorare gratis, talvolta anche per aziende di enorme rilevanza. Gli stessi giornalisti con cui avevamo modo di parlare ci dicevano di essersi rivisti nelle dinamiche dei tre video che compongono la campagna. Ecco, penso che se un hashtag, #coglioneNo, possa aver significato qualcosa è stato per quel breve momento in cui abbiamo preso coscienza di parlare a una categoria frammentata, mal raccontata e mal rappresentata che avrebbe bisogno di formule nuove di aggregazione di un’attenzione politica diversa. Ma forse è una mia percezione scollata, ingigantita dalla fragile bolla in cui ci siamo ritrovati, del tutto inaspettatamente.
Ecco il link per visualizzare uno dei video che potete trovare sul suo canale Zero: https://www.youtube.com/watch?v=sd5mHHg1ons
Sito web: https://www.zerovideo.net/
Vai a ruota libera, lascio a te le conclusioni, i saluti o ringraziamenti. Grazie di essere stato con noi!
Ringrazio David per l’intervista e voi per il vostro lavoro e saluto e ringrazio chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare a leggere i miei sproloqui fino a questo punto.