Assistere alla proiezione in sala di un film fa indubbiamente sentire parte di esso. Siamo indiretti protagonisti di uno spettacolo, le cui immagini vengono rese corpose e “saporite” nel modo in cui i montaggi creano i tasselli della storia che si sviluppa nella pellicola. Finalmente, dopo molto tempo, possiamo ricominciare a rivivere queste emozioni, grazie anche al sapiente lavoro di coloro che commentando i lungometraggi avvicinano ad essi il pubblico con le proprie recensioni, svelando anche nascoste interpretazioni simboliche. Silvio Danese ci racconta in questa intervista la magia del grande schermo attraverso la sua esperienza pluridecennale nel campo della settima arte che vive professionalmente e spiritualmente.
Ciao Silvio, dopo tanto tempo riusciamo ad avere questa bella chiacchierata e avere occasione di parlare di te attraverso queste domande; ciò mi fa davvero molto felice in quanto ho sempre visto in te una persona degna di stima e dalla quale trarre molti insegnamenti di scrittura. La tua biografia così ricca ti fa onore… sei orchestrale, attore, insegnante e sei stato consulente della Biennale per la Mostra del Cinema di Venezia. Una vita creativa dedicata al cinema a 360 gradi. Ho dimenticato qualcosa?
Sono cose passate in… giudicato. L’insieme viene, più che da doti di eclettismo, da un percorso, una passione per le arti e la scrittura, da ragazzo la musica, tutta, rock, jazz e classica, poi il teatro e qualche studio di drammaturgia, e intanto la laurea in Storia e Critica del Cinema, infine la professione giornalistica come critico cinematografico al “Giorno” e “Quotidiano Nazionale”, in una redazione spettacoli ai tempi formidabile. È proprio il cinema, il film, che tiene insieme un po’ tutto, così mi trovo spesso a tradirlo e poi ritrovarlo. Ci sono dei libri, una tra le prime in Italia, forse la prima, monografia su Abel Ferrara, un focus su un autore emergente senza uguali in tutti i sensi, nel cinema americano e non solo, e occasione per chiarire a me stesso come mi piaceva lavorare sul cinema, fuori dalle convenzioni giornalistiche (“Abel Ferrara – L’anarchico e il cattolico”, Le Mani, 1997). La combinazione tra gli studi e gli incontri con i “padri fondatori” del cinema italiano (Monicelli, Sordi, Risi, Emmer, Manfredi, Valentina Cortese, Age&Scarpelli, Comencini, Pontecorvo e tanti altri) ha poi prodotto le 500 pagine di memorialistica di “Anni Fuggenti – Il romanzo del cinema italiano” (Bompiani, 2003), mentre il mio stare anche nella musica da assiduo ascoltatore, perché a quel punto avevo smesso di suonare da un paio di decenni, ha portato al volume di narrativa “Il suono della neve” (Bompiani, 2009). Difficile capirci qualcosa anche per me…
Mi manca molto leggere la tua rubrica sulle recensioni dei film pubblicate sul quotidiano Il Giorno e finalmente ora potrò ricominciare a vedere le tue valutazioni. Intanto so che durante questa chiusura non hai perso tempo e hai pubblicato uno splendido nuovo libro di cui abbiamo già pubblicato la copertina: “Intervista alla sposa” (https://www.artovercovers.com/2020/11/05/intervista-alla-sposa-silvio-danese/)che segna la tua quarta pubblicazione. Come è nata l’idea di questo racconto? Da cosa hai preso ispirazione?
Non è chiaro neanche a me come e perché ho scritto questo romanzo, altre 500 pagine e cinque anni di lavoro. È un cocktail misterioso di cose, scandagliare i meccanismi della relazione amorosa, raccontare come si muove il dominio di genere in amore, e così via, misterioso nel senso che non saprei fornire le dosi degli ingredienti di quel cocktail, a partire dal piacere di scrivere, che è uno strano piacere, perché ti metti in una condizione non agevole: risolvere continuamente problemi; essi si presentano e devi trovare una soluzione, che sia quella giusta, e quando ti sembra giusta accettare che forse non lo è.
La storia si focalizza sulla vita di una donna. Esistenza pervasa dalla drammaticità. A cosa è dovuta la scelta di questo personaggio attorniato da un background così intenso? Possono esserci dei taciti riferimenti all’attuale situazione che sono costrette a sopportare molte donne oggigiorno?
I riferimenti alla cronaca sono alla base del romanzo. È esplicito che ci troviamo sia nella storia di un lungo matrimonio di rituali violenti sia nella analisi di alcuni meccanismi arbitrari della relazione tra i generi. Si tratta di una impostazione secolare del dominio maschile che riguarda le donne oggi come le donne dei millenni alle nostre spalle. In questa vicenda, in un contesto estremo, laddove la cronaca da anni ci presenta le sorti violente del possesso e della manipolazione nella coppia, ho provato a inoltrarmi senza limiti in una passione d’amore che dalla giovinezza prende proprio la stangata delle illusioni: lei, Stefania, da ragazza parte con un uomo capace di aprirle il mondo e nel matrimonio scopre una persona diversa, ossessiva, aggressiva; lui, Dino, va dritto per la sua strada e stampa su Stefania il marchio dell’eletta, quella che deve essere nella vita e nella famiglia come la immagina, non come è. Una come Stefania si chiama vittima perché non sa di finire nella realtà allucinata del marito. Ormai un copione nella vulgata. Bene, appunto. Ma sappiamo davvero “come”? Non diciamo in che modo, ma Stefania è riuscita a uscirne viva da questa relazione… Uno scrittore vuole raccontare, e forse riscattare, la storia di Stefania e decide di incontrarla per scrivere un libro. Cinque sedute per una vita intera da esplorare, capire, anche dove sembra impossibile. Annientare e generare è una visione precisa del paradosso tra Stefania e il marito Dino. Con le parole di Stefania e quello che possiamo chiamare il “flusso di coscienza” dello scrittore l’intera relazione sentimentale si apre al suo percorso nel tempo: il desiderio e le aspettative, l’unione e i figli, i ruoli e il dominio, la fiducia e il controllo. Amore e potere, passioni forti della famiglia. Ma, senza svelarlo, vorrei aggiungere che il romanzo è attraversato anche dall’elegia della carezza, per una via che semmai scoprirà il lettore. Certo è che lo scrittore, che intervistando Stefania crede di poter controllare la sua protagonista, finisce in pezzi anche lui, dal momento che deve confrontarsi con le forme del dominio maschile, con se stesso, con la sua presunta innocenza. Si va a un finale liberatorio…
Sembra che nel libro stesso, la scrittura venga vissuta come un atto di liberazione, sei d’accordo con questa mia idea?
La scrittura è sempre un movimento liberatorio, quantomeno da una pressione difficile da controllare dall’interno all’esterno, salvo scoprire, come dicevo prima, che ti stai mettendo nelle grane. In questo caso il romanzo mette in scena proprio la fabbricazione di un testo, il libro che lo scrittore vorrebbe scrivere su Stefania, sulla sua vicenda matrimoniale. Riuscirà a fare quel libro o strada facendo qualcosa gli fa cambiare idea? O forse il libro giusto è quello che si sta facendo ascoltando la storia di Stefania dalla sua viva voce? Il lettore vive la questione da una posizione privilegiata, critica: in ogni momento è sia dentro che fuori. Alla base comunque c’è una domanda fondamentale: come si racconta una storia come questa?
Finalmente la diffusione del Coronavirus sembra che stia volgendo al termine e che le sale cinematografiche stiano pian piano riaprendo, qual è il tuo stato d’animo a riguardo?
Il 26 aprile sono tornato subito in sala. Serve dire altro? Da decenni vedo circa 500 film l’anno, la sala è un luogo prima di tutto fisico per me, addirittura inevitabile direi, anche se dal punto di vista professionale da qualche anno le cose sono un po’ cambiate: diverse anteprime vengono proposte anche con un link privato, il sistema sta diventando “misto”. Le cose sono cambiate con la pandemia. Cambieranno ancora.Da cosa parti quando scrivi la recensione di una pellicola? Hai una tecnica con la quale stendi il tuo testo?
Mi viene un po’ da ridere a rispondere. Oggi la recensione su un quotidiano di protocollo è lunga circa 1000 battute, sette righe di cartella, spesso scende a 800, io ne faccio anche da 420, diciamo tre righe e mezzo. Basta guardare le pagine dei film del giovedì nelle principali testate. La contrazione ha una vicenda che ora sarebbe lungo da ricostruire. In rari casi si spende un pezzo, ormai tre, quattro volte l’anno non di più. Soltanto il Corriere della Sera concede a Paolo Mereghetti direi cento righe per un film a settimana. Quando ho incominciato le recensioni erano lunghe almeno cinquanta, sessante righe. Credo che il discorso sul film conti più del giudizio. Detesto stellette, voti, pallini. Ma gli editori li pretendono. Morto il discorso, resta il singulto… In quel breve spazio dovrebbe starci almeno una comunicazione di servizio assai compressa: un orientamento sul regista/autore/produzione, il tema del film, modelli narrativi, ruoli e attori, l’ormai stabile combinazione di generi, l’emozione di sostanza, fisica e di pensiero, un barlume di interpretazione, cercando di far intuire al lettore/spettatore una direzione di senso, di differenza o di omologazione, eccetera. Si combatte ogni volta con le parole per non perdere l’essenziale, ma è un testa a testa con l’impossibile, oppure ci si abbandona felicemente a giochi di parola, si fa quel che si può. Perché siamo a questo punto nel rapporto tra editoria, informazione, critica e lettori/spettatori? Ne parliamo un’altra volta.
Un film non viene visionato solo da persone esperte come te, ma è una forma d’arte aperta a tutti. Esistono film belli e brutti o l’opinione è sempre soggettiva? La valutazione di uno spettatore comune può essere rilevante per la qualità di una pellicola o bisogna lasciare la parola ai critici?
Ogni spettatore che vive su questa Terra è un critico nella vita, ognuno di noi fa scelte che partono da informazioni, necessità, gusto, bisogno, orientamento culturale, di costume, di fede, di classe sociale eccetera. Distinguere, selezionare, è la prova che siamo vivi e autonomi, anche quando sembra che non siamo vivi e non siamo autonomi… Intuire la bellezza, prima ancora di riconoscerla, è poi un passo più in là, o forse proprio il passo più naturale, dipende. Ciò che ci piace non esaurisce, non può, non riesce a esaurire, ciò che forse è meglio o peggio di quel che soggettivamente pensiamo. Una cosa è dire che un film ci è piaciuto o non ci è piaciuto e un’altra è accettare di imparare a riconoscere un film bello, condividendo il “sistema” di quel tipo di comunicazione, la sua caratteristica, la sua qualità. Anche con un’auto, per stare a un prodotto, che è ben diverso da un film… C’è chi, considerando orrenda una Mini, potrebbe scoprire che c’è un modo di guardarla e un “sapere” su quell’auto, dalla linea alla tecnologia, che scardina la propria certezza. Se pensiamo a quanto più o meno ogni tifoso sa del calcio (tanto) e quanto (poco) sa del cinema uno spettatore che cerca, non so, “una bella storia”, delle “belle immagini”, è facile intuire come siamo indietro nella alfabetizzazione sul cinema. La questione è complessa, bello e brutto, chi lo decide? Si discute di questo da più di un paio di millenni. Il fatto è che lo spettatore può non essere adeguato al film. Ci sono film che sono “migliori” degli spettatori, nessuno di noi vuole ammetterlo, anche perché il cinema è fondamentalmente vissuto come un tempo di svago che non richiede speciali informazioni o educazioni. I critici, come dire, danno una mano…

@Pietro Coccia-GRANATA IMAGES
Qual è il tuo punto di vista in merito alla visione dei film in streaming rispetto alla proiezioni al cinema? Pensi che le prime visioni in sala non tramonteranno mai?
Guardare un film non significa vedere un film, si dice. Un film su uno smartphone in metrò piuttosto che su un computer poggiato sulle gambe a letto o su una smart-tv da 70 pollici seduti sul divano cambia? Al cinema è meglio? Dipende dal film. Davvero, non è una questione semplice da liquidare. Con la questione del hardware e dei formati c’è anche quella della qualità dello streaming rispetto a quella della proiezione digitale (ormai è definitiva) in sala. La pellicola è morta. Dunque da qualche tempo il cinema è già un’altra cosa anche in sala. “Matrix” o “Tenet” possono sembrare difficili da seguire anche su grande schermo in sala, un film di Herzog su uno smartphone può diventare ridicolo, ma intanto il nostro sguardo, nella minuscola distanza tra occhi e display può cogliere molto, se è educato. Dunque, la vera differenza è: andare o non andare al cinema. Proprio l’azione della volontà di creare una frattura tra un luogo privato e un luogo pubblico per fare un’esperienza sensoriale e intellettuale individuale e insieme condivisa. Il cinema è questo, direi. Non cambia, in questo senso.
Io sono fermamente convinta che l’emozione che si prova in sala sia di gran lunga superiore rispetto alla visione in TV. Il coinvolgimento che ha il pubblico di fronte a questo grande schermo fa sentire parte della pellicola e amplifica le emozioni che sono molto più forti e palpabili. Inoltre la trovo anche una sorta di condivisione perché non si è soli sulla poltrona ma ci sono anche altre persone sia pur sconosciute che stanno provando più o meno gli stessi sentimenti che proviamo noi. Ti trovi d’accordo con questa affermazione?
Appunto. Diciamo che anche ricreando quel che ci vendono da anni come hometheatre, davanti al quale possiamo riunire amici e scambiare considerazioni per rispondere a quella inevitabile domanda: siamo sicuri di aver visto lo stesso film? Beh, non si ricomporrà mai l’azione, la frattura della volontà, e non si presenterà la percezione di una sensorialità condivisa con l’estraneo, e dunque quel passaggio ipotetico del film, e del cinema, come luogo di con-sensualità con altri ignoti che a quel punto, condividendo anche la quantità enorme di antropologia di un film, sono meno estranee, un estraneo “diverso”, potrebbe essere contattato: «scusi, le è piaciuto?» e anche se non lo facciamo sappiamo che eravamo… insieme, proprio perché non ci conosciamo. C’è anche la questione ottica, il rapporto tra angolo di visuale e dimensioni dello schermo dove, a seconda della velocità di permanenza e di movimento nelle o delle inquadrature, lo sguardo formula al cinema, e comunque ove si prospetti una certa ampiezza dell’angolo di visuale formuliamo scelte nostre di sotto-inquadrature, insomma scegliamo nella grandezza anche che cosa vogliamo vedere meglio e dove vogliamo fuggire con il nostro sguardo.
Riesci a fare una stima di quanti film hai visto finora?
No, non saprei, non sono neanche un tipo da record, non sono mai stato quel che si dice “cinefilo”, so che il cervello è un caos sensoriale, è ormai colonizzato da personaggi, intrecci, luoghi del mondo, suoni e una marea di sciocchezze e rifiuti, e non è sempre carino…
Hai voglia di raccontarci facendo un notevole “salto nel passato” come è iniziata questa tua carriera di critico cinematografico? C’è stato un film che ti ha proprio trasmesso la voglia di intraprendere questa attività?
Nessun film in particolare, e un po’ i ricordi che hanno tutti dell’infanzia al cinema. Ritrovare un insieme, sceneggiatura e dunque drammaturgia e letteratura, la fotografia, e dunque arte e pittura, la recitazione, quindi il palcoscenico, la musica, il movimento nello spazio, quindi la coreografia, e pensare questo insieme nel film, quindi anche per qualche domanda filosofica, e la personalità degli autori, questo insieme mi ha coinvolto più o meno consapevolmente fin da ragazzo.
Parlando di cinema, una domanda che desidero farti da molto tempo è se c’è qualche locandina che prediligi… immagino che tu abbia avuto la fortuna di visionare centinaia e centinaia di film e magari qualche manifesto in particolare ti è rimasto impresso. Mi piacerebbe sapere quale sia!
Non vorrei deludere dicendo che, vista la scarsa memoria e qualche deficit di attenzione verso i manifesti più recenti, ricordo una notevole simpatia per i manifesti di kolossal sull’antichità di cartapesta, i peplum visti all’oratorio, come “Barabba” o “Ben Hur”, ma anche i filmoni in costume della serie “Angelica alla corte del re”. Mi colpiscono ancora le locandine Anni’40 dove i volti degli attori, maschio e femmina, sono incrociati e plastificati in un abbraccio che li allontana in qualche strana dimensione fuori dal tempo. Ricordo la nettezza ed efficacia di “E.T. l’extraterrestre” e la perfezione umoristica del fantasmino con divieto di “Ghostbusters”. Tanti film, tante locandine, dunque è un sistema figurativo, ricco e insieme quasi mai indiretto, una forma d’arte non secondaria, sebbene in gioco concettuale e simbolico con il film.
Pensi che il poster di un film abbia importanza per la presentazione di una pellicola? Come sono cambiati i poster nel corso degli anni secondo te?
La locandina di un film è, come il titolo, e più del titolo, una scelta cruciale. Potrebbe anche non coincidere con i contenuti importanti di un film, ma attrarre e portare spettatori. Le locandine si muovono liberamente tra i movimenti artistici e la storia del cinema e della fotografia. Quella di “Mulholland Drive” per esempio reinventa le locandine dei noir Anni’40 e nello stesso tempo le distrugge ingrandendo i due volti della protagonista come due pianeti di fantascienza dove l’obiettivo nostalgico e dissacratorio è nella scritta in fondo alla strofa: Hollywood. Per questo rimanderei però al gran lavoro di analisi del tuo imprescindibile e benemerito sito di Art Over Covers, dove credo si scopra sempre molto!
Silvio promettiamoci che presto sarai di nuovo nostro ospite perché le domande che vorrei farti sono ancora molte… ora lascio a te l’onore di concludere questa importante intervista con parole tue. Ti ringrazio di cuore per il tempo che ci hai concesso, alla prossima.
Grazie a te, direi soltanto: tutti al cinema!