Anno di uscita: 2007
Sito Web: http://www.longobardeath.it/
Siamo finalmente arrivati alla stagione più adatta per gustarle, e, a tavola di Mik e dei suoi compagni di terremoto sonoro dialettale “Longobardeath” la polenta (violenta) e la bonarda (bastarda) non mancano mai! Provare ad inserire questa band lombarda in un genere musicale codificato è di fatto impossibile. Anzi: è pure un controsenso, perché un apripista, per sua definizione, spezza le regole dei generi che lo precedono e non può essere incasellato in uno di essi. E questo è proprio il caso degli Ul Mik Longobardeath.
Vi sfido infatti ad elencare altri artisti che prima di loro si siano cimentati nel “Insubric Rochenroll” e nel “100% Milanes Alcoolic Rochenroll”, perché è proprio questa la formula musicale che ci viene promessa sulle copertine di “Bonarda Bastarda!!!” e “Old Time Balabiott”: due full-length album pubblicati dalla band rispettivamente nel 2008 e nel 2014.
E la promessa è mantenuta alla lettera nei solchi dei due dischi: un’originale miscela di hard-rock, heavy-metal, e musica tradizionale milanese erede di band pioneristiche come I Gufi.
Immaginate infatti Lemmy Kilmister e Nanni Svampa salire insieme su un palco davanti al Castello Sforzesco, per un concerto dopo una partita a carte all’osteria: avrete secondo me un “quadro” molto vicino agli spettacoli e allo “spirito” degli Ul Mik Longobardeath. Meglio ancora se aggiungete anche l’attore teatrale Piero Mazzarella, vera e propria “colonna” delle scene milanesi, a presentare il concerto con l’avvertimento parental advisory che compare sui dischi della band: «‘visa i to gent! Dialett milanes violent!».
Oltre all’originalità, la proposta musicale degli Ul Mik Longobardeath ha anche la caratteristica della longevità. Infatti, in concomitanza all’uscita di “Bonarda Bastarda!!!” nel 2008 la band festeggiava già i primi (parole loro) «quindes ann de putanadi». E in quasi trent’anni complessivi di carriera alcuni tratti distintivi sono rimasti invariati: uno di questi è la conservazione delle tradizioni, in particolare di quelle culinarie e alcoliche.
L’eroico muratore protagonista della canzone “Astromagutt” (tratta da “Old Time Balabiott”) non rinuncia infatti alla classica «schiscetta bela grassa», e al «barbera per condiment». E sei anni prima, sul disco “Bonarda Bastarda!!!”, anche il povero marito descritto in “Pasta Faso e Barbera” aveva più o meno gli stessi gusti…
Ma qual è il “piatto forte” degli Ul Mik Longobardeath? Torniamo indietro di un altro anno, e lo troviamo… in copertina. Eccola infatti, proprio al centro dell’immagine in apertura: la “polenta violenta” che dà il titolo all’album pubblicato dalla band nel 2007. Perfetta per il palato dei rockers, la pietanza cuoce e si dora in un paiolo rigorosamente borchiato, da cui si alza il simbolo che rappresenta per eccellenza l’entusiasmo tra gli appassionati dell’heavy-metal: la mano con le “corna al cielo”. È lecito a questo punto supporre che il paiolo ritratto sia di colore scuro per richiamare alla mente i bracciali, appunto borchiati, comunemente diffusi tra i metalheads… ma c’è anche una seconda spiegazione plausibile. Semplicemente, per secoli e fino ad un tempo relativamente recente, la cottura dei cibi si svolgeva posando pentole, paioli, e contenitori simili direttamente sul fuoco. L’esterno dei contenitori si anneriva perciò sempre più ad ogni pasto a causa della fuliggine (la “carisna”, come direbbero gli Ul Mik Longobardeath).
Nonostante fosse in senso letterale un “lavoro sporco” proprio a causa della fuliggine, la cura di pentole e paioli era considerata fondamentale, soprattutto a causa della povertà diffusa che impediva di sostituire facilmente i contenitori rotti o usurati. Per questo motivo troviamo citati in testi scritti già dal XVI Secolo degli artigiani ambulanti, i “magnan”, specializzati nel riparare e stagnare pentole, paioli, e utensili da cucina. La figura del “magnan”, ora scomparsa se non nel ricordo dei più anziani, era una vera e propria “istituzione” radicata nelle provincie di Milano, Varese, Como, e fino alle montagne della Valtellina; al punto che nel Varesotto il verbo dialettale “magnanàss” era sinonimo di “sporcarsi di fuliggine”, per i motivi che abbiamo già visto.
I “magnan” rimanevano raramente inoperosi durante i loro viaggi. Essendo un cibo a costo contenuto perché sostanzialmente “povero”, la farina di polenta era accessibile con relativa facilità anche per le classi sociali meno agiate: perciò, i paioli necessari per cucinarla rimasero largamente diffusi fino almeno al Primo Dopoguerra. Una testimonianza di ciò ci raggiunge anche dal Veneto, per mezzo di un’opera del pittore Pietro Longhi (1702 – 1785) dal titolo inequivocabile: “La polenta”, realizzata nel 1740.
In questo dipinto sono riconoscibili numerosi tratti distintivi dell’arte di Longhi; ad esempio la predilezione per la pittura d’interni, in ambienti domestici dettagliati nei particolari, osservati con curiosità e spirito bonario. Quella ritratta dall’artista, è un’umanità rustica e vivace, con le mani e le guance annerite di “carisna”: assolutamente schietta e realistica… quasi “universale”, si potrebbe aggiungere. Osserviamo infatti di nuovo il paiolo che la figura femminile al centro del dipinto di Longhi rovescia per servire la pietanza. Dopodiché, confrontiamolo con il “Paiolo di Rame” dipinto nel 1734/1735 da Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699 – 1779), pittore francese accomunabile a Longhi per l’inclinazione alla pittura d’interni.
Proprio come i loro autori, i due contenitori ritratti sono quasi coevi, e possiamo constatare che sono anche praticamente identici. Non so voi, però mi sorge spontaneo a questo punto immaginare un gruppo di commensali riuniti attorno al paiolo di Chardin, “cugino d’Oltralpe” del paiolo di Longhi. Avranno avuto a loro volta fattezze e abitudini simili ai personaggi ritratti dall’artista veneto?… È più che possibile. Dopotutto, già più di due secoli fa, lo scrittore francese Anthelme Brillat-Savarin (1755 – 1826) scrisse nel suo trattato di gastronomia intitolato “Fisiologia del Gusto”: «Dimmi quel che mangi, ti dirò chi sei». Quindi, non è esagerato affermare che paioli e polenta diventano a tutti gli effetti simboli di un intero “mondo” che si sviluppò per secoli nelle campagne di gran parte dell’Europa.
Negli Anni ’60 band come I Gufi raccolsero l’eredità di questo “mondo”, raccontandone le sfaccettature nelle loro canzoni; e ora il testimone è passato a gruppi come gli Ul Mik Longobardeath, il cui motto è, citando un’ultima volta da “Old Time Balabiott”: «Tucc el disen… Tucc el scriven… Nunc el femm… Folk!».
Più chiaro di così… La tradizione continua!
E adesso: tutti a tavola!
Paolo Crugnola