Anno di uscita: 2004
Sito web: https://www.facebook.com/INNERSHRINEBAND/
Immaginate l’espressione dei soldati cartaginesi, quando Annibale disse: «Per di qua!» indicando le Alpi.
Probabilmente la band gothic-metal fiorentina Inner Shrine provocò uno stupore di poco inferiore, mentre descriveva il progetto su cui rimase concentrata dal 1997 al 2004: un concept tematico incentrato sull’arte alchemica, sviluppato attraverso la musica e i testi (in Inglese e in Latino) di tre album.
Il disco “Nocturnal Rhymes Entangled in Silence” aprì infatti questa trilogia nel 1997, seguito nel 2000 dal secondo capitolo “Fallen Beauty”. Il lavoro conclusivo, intitolato “Samaya”, fu pubblicato invece nel 2004, e ne possiamo ammirare la copertina nell’immagine posta in apertura.
A ciascuno dei tre album corrisponde, sia concettualmente sia da un punto di vista cromatico, uno dei tre passaggi del procedimento noto come “Grande Opera”. L’obiettivo di questo metodo – la realizzazione della Pietra Filosofale, capace di trasformare i metalli “vili” in oro o argento – fu il principale tra i fini perseguiti dall’alchimia.
Considerando però la vastità e il carattere ermetico di quest’arte, è opportuno fare un passo indietro per definirne le peculiarità, in modo da poter poi comprendere meglio come essa abbia ispirato le composizioni degli Inner Shrine e, naturalmente, l’immagine di copertina di “Samaya”.
Anzitutto occorre premettere che, se oggi l’alchimia oscilla nell’immaginario collettivo tra il ruolo di grezza ma entusiasta antenata della chimica, e quello di imprevedibile musa di maldestri apprendisti stregoni, è anche perché già tra i “contemporanei” le opinioni riguardo ad essa anticipavano questo dilemma. Considerando il XVIII secolo come termine di definitiva decadenza per l’arte alchemica, notiamo infatti che già nel Medio Evo i pareri circa la sua credibilità potevano essere diametralmente opposti.
Ad esempio, al vescovo di Ratisbona Alberto Magno (1205 ca – 1280) è attribuito, seppure con alcune riserve, il trattato “De Alchimia”, in cui si legge: «Perseverai, finché giunsi a riconoscere che la trasmutazione dei metalli in argento e oro è possibile».
Di opinione appunto opposta fu Dante Alighieri. Il suo giudizio sugli alchimisti è senz’altro venato di scetticismo e di una certa bonaria sufficienza: constatiamo infatti che il poeta riassume la loro categoria nei tratti di ciarlatani scalcagnati, con qualche vena comica che anticipa addirittura i personaggi di “Amici Miei” di Monicelli (del cui film è stata recensita la locandina che potete leggere qui: https://www.artovercovers.com/2017/01/05/amici-miei/)
Il ritratto di Griffolino d’Arezzo (“Inferno” XXIX, 109 – 120) è emblematico a questo proposito. Precipitato nella decima bolgia tra i Falsari di Monete, il dannato ammette: «… me per l’alchimia che nel mondo usai dannò Minòs…»; ma riconosce anche di essersi procurato da solo una disgrazia mortale sulla testa, per essersi burlato di un certo Albero da Siena, «ch’avea vaghezza e senno poco».
Chi aveva dunque ragione?… Alberto Magno? Dante? Entrambi? In assenza di prove dirette, per dirimere la questione si potrebbe senz’altro ammettere un’ipotesi più che verosimile: cioè semplicemente che nel vasto e internazionale mondo degli alchimisti coesistessero seri e disinteressati studiosi insieme a truffatori matricolati.
L’apporto di un curioso personaggio vissuto alla fine del XIX Secolo, il francese Albert Poisson, ci propone una chiave interpretativa preziosa in questo senso, e successivamente ci offre anche una spiegazione approfondita circa le caratteristiche dell’alchimia su cui ci siamo interrogati inizialmente.
Poisson, appassionato ricercatore librario, redasse infatti nel 1891 il saggio “Théories et symboles des alchimistes”. Il titolo non lascia spazio a dubbi circa il contenuto, e si può dire che l’intento dell’autore di “renderlo più chiaro possibile” sia stato raggiunto, a cominciare proprio dalla definizione dell’arte.
Poisson riporta infatti le precise parole dello studioso e teologo inglese Roger Bacon (ca 1214 – 1294): «L’Alchimia è la scienza che insegna a preparare una certa medicina o elisir che, proiettato sui metalli imperfetti, comunica loro la perfezione nell’istante stesso della proiezione». Si tratta quindi di un metodo inteso a realizzare un composto, detto elisir, magistero, o Pietra Filosofale, capace di trasformare i cosiddetti metalli “vili” in oro o argento. La ricerca di questo composto, come abbiamo già visto, prende il nome di “Grande Opera”.
Secondo Poisson due generi di alchimisti si impegnarono nella ricerca della Pietra Filosofale. Lo studioso francese nomina i primi “soffiatori”, e ne traccia un profilo minimizzante, praticamente identico a quello presentato da Dante. Nella seconda categoria figurano invece i “filosofi ermetici”, descritti dall’autore come seri ricercatori dediti all’indagine “sui principi delle cose”.
Alla base degli sforzi e degli esperimenti dei “filosofi ermetici” Poisson rintraccia una legge teorica basilare risalente già al II secolo dopo Cristo: l’Unità della Materia. Secondo questa legge la Materia è una e può assumere forme diverse, che possono a loro volta combinarsi e produrre corpi nuovi illimitatamente. Partendo da questo assioma, la trasformazione dei metalli diventa ammissibile.
Poisson elenca poi quelli che per gli alchimisti erano i tre principi fondamentali della Materia: zolfo, mercurio e sale. L’unione di questi elementi in diverse proporzioni avrebbe quindi originato tutti i corpi. In particolare, uniti e cotti secondo regole precise, avrebbero potuto comporre la Pietra Filosofale. Per l’esattezza, inizialmente dovevano essere richiusi in un matraccio (cioè un contenitore di vetro di forma sferica), detto “uovo filosofico”, accuratamente sigillato.
Dopodiché il tutto doveva essere riscaldato in una fornace, chiamata Athanor: l’accensione del fuoco costituiva l’inizio della “Grande Opera” in senso proprio. A questo punto, Poisson cita nel suo trattato i fenomeni che costituivano i passaggi successivi, e che si svolgevano durante la cottura. A ciascuno di essi corrisponde un colore che la Materia via via assumeva, fino al conclusivo colore rosso che annunciava il successo della “Grande Opera”.
Il primo passaggio prendeva il nome di “putrefazione”, e corrispondeva al colore nero, chiamato anche “testa di corvo”. L’alchimista Georges Aurach specificò nel suo trattato del 1415 “Donum Dei” che questo passaggio durava circa quaranta giorni. Dopo la “putrefazione” seguiva “l’abluzione”, detta anche “dealbazione”, in cui la Materia assumeva il colore bianco detergendosi dalla precedente nerezza. Il terzo e ultimo passaggio consisteva nella “rubificazione”: la Materia si trasformava in una polvere rosso brillante, che confermava, come già detto, l’esito positivo della “Grande Opera”.
Torniamo ora alla trilogia di album degli Inner Shrine per capire come questi passaggi e questi colori si colleghino alle composizioni della band. Nei tre dischi non troviamo in senso proprio attinenze alla realizzazione della Pietra Filosofale per quanto riguarda l’ambito dei metalli: infatti il “percorso verso la perfezione” che è il tema portante delle lyrics si riferisce invece all’essere umano. La “Grande Opera” diventa quindi l’allegoria di un avanzamento spirituale, e ciò è coerente con le teorie mistiche sviluppate a suo tempo da alcuni alchimisti e riportate da Poisson nel suo trattato: «L’uomo è dunque l’Athanor filosofico nel quale si compie l’elaborazione delle sue virtù».
Il percorso di avanzamento spirituale concepito dagli Inner Shrine inizia quindi con le atmosfere fosche e inquiete, “nere”, di “Nocturnal Rhymes Entangled in Silence”. Prosegue poi attraverso la resurrezione simbolica “bianca” di “Fallen Beauty”, e si conclude infine con l’apice “rosso” di “Samaya” (“sigillo” in sanscrito).
Come spiegato dalla band, i tre colori sono anche appositamente presenti nell’immagine di copertina del terzo album, e questa scelta “riepilogativa” riecheggia le parole allegoriche con cui l’alchimista Aurach descrisse la Pietra Filosofale nel “Donum Dei”: «Re il cui capo è rosso, gli occhi neri, i piedi bianchi».
Nelle due figure assorte in una partita a scacchi simbolica – che richiama la sfida tra il Cavaliere e la Morte nel capolavoro di Ingmar Bergman “Il Settimo Sigillo” – troviamo infatti il nero nei mantelli, il bianco che borda solo quello della figura di destra, e la fodera rossa del mantello indossato dalla figura a sinistra. Inoltre, in posizione centrale, compare anche l’oro: simbolo evidentemente del successo del percorso di ascesa. Esso è presente nel cuore sfavillante dell’Empireo circondato da schiere angeliche, così come rappresentato nell’incisione di Gustave Dorè per i Canti XXX e XXXI del “Paradiso” di Dante.
La scelta di inserire nell’illustrazione di copertina questo dettaglio dell’incisione, che corona l’ascesa di Dante fino al culmine dello splendore divino, è senz’altro coerente alla perfezione con l’intento degli Inner Shrine di rappresentare l’ascesa spirituale dell’uomo attraverso la “Grande Opera”.
Anzi, se confrontiamo i tre passaggi necessari alla realizzazione della Pietra Filosofale, nei loro concetti metaforici di “caduta”, “purificazione” e “ascesa”, con i significati allegorici delle tre Cantiche di “Inferno”, “Purgatorio” e “Paradiso”… possibile che Dante nutrisse una tale indifferenza per l’alchimia, da non accorgersi di aver posto in versi una “Grande Opera” egli stesso?
Paolo Crugnola