Anno d’uscita: 2003
Regia: Gus Van Sant
“Elephant” è un film drammatico del 2003 diretto da Gus Van Sant, vincitore della Palma d’oro al miglior film e del premio per la miglior regia al 56º Festival di Cannes. Si ispira alla strage avvenuta nel 1999 presso la Columbine High School. Nell’interpretazione cinematografica il regista sceglie di raccontare unicamente la giornata scolastica che sfocia nel massacro premeditato da parte di due studenti outsider. La narrazione si svolge attraverso inquadrature soggettive differenti, che tendono a convergere e a rincontrarsi. Il titolo “Elephant” allude al proverbiale elefante nella stanza, metafora di un problema che tutti vedono ma di cui nessuno vuole parlare. Si tratta di una citazione dell’omonimo film del 1989 diretto da Alan Clarke, sulla violenza settaria nell’Irlanda del Nord.
Sono state usate almeno tre locandine per promuovere questo film, indimenticabile per il suo particolarissimo linguaggio visivo: un linguaggio descrittivo-poetico, fluttuante e sospeso, fortemente minimalista o essenziale, curato con estrema maestria dal direttore della fotografia Harry Savides, prematuramente deceduto nel 2012.
In questa recensione parlerò di due versioni.
Il primo manifesto scelto mostra un montaggio fotografico di due still frames dell’opera cinematografica. Ci presenta una scena chiave del racconto su di uno sfondo con un cielo che fa intuire una tempesta in arrivo. A prima vista si è portati a pensare che la locandina promuova un film su una storia d’amore tra due adolescenti. Infatti mostra John che riceve un bacio sulla guancia da una sua compagna di scuola. John è il ragazzo che con la sua maglietta gialla e i suoi capelli biondissimi, rientrando a scuola dopo la pausa pranzo, ci introduce nel racconto. Ma il messaggio visivo del poster si dimostra essere superficiale e ingannevole. Infatti lo spettatore scopre ben presto che si tratta di una pellicola concettualmente unica e molto diversa dal mainstream di Hollywood. Scoprirà in un secondo momento che John stava piangendo per la sua situazione familiare e che il bacio in verità era solo un pseudo-bacio di consolazione, perché la ragazza si dilegua subito dopo averlo dato, senza interessarsi minimamente del perché John stia male.
In un altro lungometraggio John sarebbe stato l’indiscusso protagonista, ma la regia di Gus Van Sant non prevede i classici due o tre (veri) protagonisti. Ci sono invece diversi punti di vista (soggettivi) di molti adolescenti che si incontrano e confluiscono. Questi punti di vista vengono mostrati attraverso lunghi piani sequenza girati con una steadycam che segue i personaggi e li gira intorno. Il film, essendo stato ripreso unicamente con luce naturale e luce ambientale ha un’impronta quasi documentaristica e non parla affatto di amore. Mostra invece i “micro-cosmi” di diversi giovani nella loro farsa quotidiana, quasi esclusivamente scolastica. Il vissuto dei protagonisti fa emergere un profondo disagio esistenziale che culmina nell’odio maturato nei due alunni “killer” Alex ed Eric.
Con delle immagini tendenzialmente piatte (languid naturalism), un principio di minimalismo applicato anche a livello di scenografia, illuminazione e dialoghi e facendo confluire in modo poetico i diversi punti di vista soggettivi, il film ha sfoggiato un linguaggio (visivo) che trasmette vuoto esistenziale e mancanza di affetto. Si rivela essere dunque tutto il contrario di quello che il bacio mostrato nell’affiche potrebbe far intuire. La locandina resta comunque fedele al principio di minimalismo dell’opera e mette in risalto un colore dominante della sua color palette: il giallo della maglietta di John, il colore che nel linguaggio cromatico è metafora di “prudenza e pericolo”.
Il film vive delle sue immagini poetiche e di una tensione visiva che scaturisce dalla combinazione di specifiche tecniche cinematografiche volte a comunicare l’opposto. Sulla particolarità di queste tecniche non ci possiamo soffermare in questa recensione, ma va sicuramente detto che “tensione e poesia” vengono giustamente riprese anche dalla locandina, con un bacio e una tempesta in arrivo.
Il secondo manifesto evoca in maniera ancora più chiara il minimalismo (visivo) nel film, sintetizzando il bacio di consolazione con un ritaglio più stretto su di uno sfondo con un enorme elefante arancione scontornato. L’arancione è anch’esso un colore importante della color palette del film. Come croma è metafora visiva o messaggio sinestetico che invita a fare attenzione e segnala la presenza di un pericolo.
A mio parere il film “Elephant” ci dà una spiegazione potentissima e totalmente artistica del massacro avvenuto nella Colombine High School: da un lato mantiene un punto di vista descrittivo, quasi oggettivo. Attraverso lo strumento delle inquadrature soggettive entra però nella profondità della problematica esistenziale dei giovani cresciuti in un benessere visibilmente solo materiale. In questa maniera sviluppa un nuovo approccio, un punto di vista viscerale, opposto a quello descrittivo. Fa vivere allo spettatore in maniera coinvolgente un’atmosfera di “pochezza emotiva”, concetto ripreso con il suo minimalismo grafico anche dalla seconda locandina qui discussa.
Fabian von Unwerth