Anno d’uscita: 1990
Sito web: www.artillery.dk
Il principe Amleto, la Sirenetta e le fiabe di Hans Christian Andersen, la filosofia esistenzialista di Kierkegaard, la Carlsberg: queste sono di solito le cose che di primo acchito si associano alla Danimarca, non certo il Metal. È pur vero che il piccolo stato nordico ha dato i natali a Lars Ulrich (batterista dei Metallica), ai Mercyful Fate e a King Diamond ma non si può certo dire che abbia sfornato schiere di gruppi hard ‘n’ heavy; l’esiguo numero di metallari sul suolo danese è inoltre reso più evidente dalle floride scene musicali delle sorelle scandinave Svezia e Norvegia, tanto importanti da dare vita a due correnti di grande successo come il Death Metal svedese e il Black Metal norvegese, mentre parlando di danese viene in mente un cane o un biscotto tutt’al più.
Ciononostante, la Danimarca può vantare alcune gemme nascoste: una di queste sono gli Artillery, un ensemble Thrash Metal dal sound tecnico e roccioso. Nel loro terzo disco“By Inheritance”(1990) il canonico Thrash memore della lezione di Megadeth e Coroner è arricchito dall’utilizzo di armonie e soli chitarristici old school (gli unisono di Iron Maiden e Judas Priest) e da una voce melodica – ma sempre piena e incisiva – dalle tinte vagamente Power che conferisce alla musica un afflato epico ed evocativo, sullo stile di cantanti come Joey Belladonna degli Anthax e Russ Anderson dei Forbidden. Tra quest’ultimo gruppo e i thrasher danesi esiste un ulteriore trait d’union, ossia l’illustratore: Kent Mathieu, che ha disegnato le copertine di quasi tutti i dischi del quintetto californiano (tra cui spiccano il debutto “Forbidden Evil” e “Twisted Into Form”), firma anche l’artwork che campeggia sulla cover di “By Inheritance“.
L’immagine che ci viene offerta è surreale e straniante: un uomo di spalle e sperduto in un labirinto di specchi si trova circondato da un semicerchio di superfici riflettenti, ognuna delle quali restituisce un’immagine diversa che si pone come un tassello nell’evoluzione dell’umanità, dall’uomo delle caverne a sinistri androidi (o umanoidi?) provenienti dal futuro. L’utilizzo degli specchi moltiplicatori appare nella fondamentale scena di “Quarto Potere” (titolo originale “Citizen Kane”, 1941) in cui il protagonista Charles Foster Kane– magnate dell’editoria interpretato dal regista Orson Welles – appare infinite volte nella stanza della sua fortezza Xanadu, un raffinato e sottile invito a riflettere su come sia impossibile comprendere la complessità di un uomo, inquadrarlo in un’unica definizione o identificarlo con un solo aggettivo. Il ragionamento vale tanto per il singolo quanto per l’intero genere umano, soggetto alla logica del Panta rhei (“tutto scorre”) teorizzata dall’oscuro Eraclito e ad un perpetuo e frenetico mutamento.
È però evidente che la figura del cavernicolo a sinistra e quella dell’uomo robot a destra, nonostante costituiscano il punto di partenza e il punto di arrivo dell’evoluzione e si trovino dunque agli antipodi, siano accomunate da un aspetto inquietante e brutale che ben poco ha di umano. Le tematiche che affiorano nelle canzoni dell’album (riflessioni su guerra, religione, odio e ingiustizia tipiche del Thrash Metal) e dovrebbero fare luce sul tema di fondo sono affrontate, va detto, in modo abbastanza scontato e con un linguaggio povero e ripetitivo; la copertina del disco, fortunatamente, sopperisce alle lacune testuali e comunica con efficacia il messaggio: un uomo, che sia primitivo o ultra tecnologico, antico o moderno, è sempre capace di compiere le peggiori efferatezze e crudeltà.
Le figure ai lati opposti dell’immagine sono ospitate da specchi ben più grandi di quelli che compongono la catena vetrata perché sono più vicine allo spettatore, divenendo così simbolo della facilità con cui l’essere umano cede al Male. Certo, nel corso della storia l’umanità ha eletto onestà e rettitudine a valori universali, ma l’acme di questo percorso è uno specchietto talmente lontano e minuscolo da non riuscire a riflettere in maniera chiara, nitida e nemmeno integra l’immagine di un uomo probo, un modello dunque in cui è pressoché impossibile specchiarsi e identificarsi. Bestialità, grettezza, odio sono ciò che l’uomo scimmia tramanda di generazione in generazione e lascia “in eredità” al futuristico automa, creando un circolo vizioso dal quale non si può uscire, una catena che è impossibile spezzare. L’inerme (o inerte?) testimone di tale morboso lascito potrebbe anche essere mosso dalle migliori intenzioni ma qualcosa suggerisce che presto o tardi sarà trasformato in una deforme creatura destinata a trovare spazio tra i ritratti della galleria di ignominia.
E noi che osserviamo l’intera scena, idealmente posti dietro al personaggio che ci dà le spalle, ci sentiamo coinvolti come se fossimo in fila ad attendere il nostro turno di affrontare la cruda e corrotta realtà, tanto più che sorge il dubbio che i profetici specchi proseguano oltre il nostro campo visivo e ci imprigionino in attesa di partorire l’ennesimo stadio di questa selezione innaturale.
Nik Shovel