Anno d’uscita: 2018
Regia: Matteo Garrone
La solitudine, la negazione del materiale che riempie le astratte aree dell’inconscio. La privazione ripetuta di condimenti di colori accesi, di oggetti e di personaggi che lasciano l’amara realtà nella sua più nuda essenziale verità. Premiato a Cannes, “Dogman” è il nuovo film firmato Matteo Garrone, una rivisitazione del delitto del “Canaro della Magliana”, avvenuto nel 1988 per opera di Pietro De Negri.
Il manifesto comprende coerentemente gli scopi della riflessione sull’efferata vicenda. Tre elementi: un uomo minuto, un uomo possente e un cane. Il ribaltamento dei ruoli, come un Davide che vince su Golia e ne trasporta il corpo morente come trofeo da mostrare verso un pubblico idealizzato.
Il fotogramma del finale, dell’epilogo compiuto e irrimediabile. Un uomo misero che sorregge e trasporta con la sola forza delle sue spalle un peso irremovibile. Marcello, il canaro interpretato dall’omonimo Marcello Fonte, sembra un pellegrino che vaga nei metafisici spazi di una periferia abbandonata e senza vigore. Un vagabondo che trasporta il proprio saccoccio sulle spalle per andarsene per sempre, dentro il quale non ci sono viveri ma colpe. L’evasione dal proprio passato che non abbandona ma che invece si attacca sulla sua schiena schiacciandolo e facendolo sentire comunque solo.
Quel peso non è solamente una persona morta, ma comprende tutto il passato di Marcello che include tutte le azioni di causa, effetto, conseguenza: la storia precedente al fatto compiuto. Una sorta di espiazione delle malefatte che sono inglobate in questo involucro esanime. Simone è stato sacrificato per un riscatto personale, per un riconoscimento, per una speranzosa ricongiunzione serena del protagonista con l’intero quartiere.
La brutale efferatezza con la quale Marcello si libera dal suo male sarà la sua stessa condanna, la sua bramosia di riscatto che lo condurrà su un cammino verso l’ignoto. Nel manifesto non si intravede il traguardo ma solo l’infinito dell’orizzonte incolore. Un proprio Golgota pianeggiante, sul quale terminerà la marcia di Marcello in attesa di un riscontro che non arriverà mai. Lui, un uomo misero, accompagnato solo dal suo fedele amico a quattro zampe che non lo abbandona, nemmeno nei momenti più bui, la promessa di un legame indissolubile e puro, non contaminato dai giudizi e dagli orgogli di chi un tempo faceva parte del mosaico delle sue giornate.
La location di sfondo dove è stato girato il lungometraggio presente nel poster è Castel Volturno, il Parco del Saraceno a Pinetamare, nella darsena abbandonata di Villaggio Coppola che, secondo il progetto iniziale poi sfumato sarebbe dovuta diventare una sorta di seconda Rimini. Un degrado e desolazione attanagliante che ben vince sulle sensazioni da far provare allo spettatore.
Colori plumbei come il cielo, mezze tinte, mezzi toni, mezzi sentimenti. L’assenza di vita della spiaggia invernale, la pioggia in arrivo, in un mare grigio molto lontano. Il luogo dimenticato. Gli echi degli schiamazzi sulle spiagge non si possono ancora udire, il suo passo è muto. La salsedine che inaridisce e consuma le strutture, riuscendo ad arrivare anche al cuore. Le periferie cerebrali, come i margini strutturali dove si svolge la pellicola richiamano un enorme parallelismo psicologico. I confini della propria mente inabissati nei suoi oscuri pensieri. Lo sporco che poggia su di lui come un mantello oscuro è l’intaccamento di un batterio che si è insediato nel suo io e che non lo lascerà mai libero. Dolore e passato legati per sempre.
Sara “Shifter” Pellucchi