Anno d’uscita: 1974
Sito web: https://it.wikipedia.org/wiki/Pharoah_Sanders
“Love is Everywhere”, il brano di venti minuti (come “To John”) che apre “Love In Us All” (Impulse!, 1974), è un battito cardiaco universale che si propaga a ripetizione. Tutto è una continua ripetizione. Inizia con il basso di Cecil McBee, membro dei The Leaders, ed è un mimare la pulsazione del cuore, miliardi di cuori. Tutto a seguire si ripete: il piano di Joe Bonner, le percussioni di Mtume, Lawrence Killian e Badal Roy, il sax di Pharoah Sanders. Come se ci fosse il bisogno di dire e rimarcare un messaggio da imprimere nell’Universo.
La copertina è un raro esempio di connubio perfetto tra il visivo e l’uditivo che, non solo suggestiona ma detiene un forte potere esplicativo; come se fossero o meglio esistessero l’una per l’altra, grafica e musica in simbiosi. Se la copertina del disco postumo di John Coltrane, “Transition” (Impulse!, 1970), aveva una chiave di lettura opinabile (potrebbe ricordare il continuo movimento ascendente e discendente del sax tenore), in rapporto con la musica, “Love in Us All” non lascia dubbi; quello che sento è quello che vedo e viceversa. La ripetizione diventa quindi per Sanders un modus che non lascia il primo brano, pure nel sentimento che esprime, la musica rilascia un senso di unione paradisiaca e pace interiore.
Si vuole qui mettere in paragone altri esempi di ripetizione grafica, nel panorama discografico jazzistico, con risultati, come vedremo, lontani da “Love in Us All”.
Per Jimmy Heat e la sua orchestra, la ripetizione ascendente della cartolina con titolo e note di “Really Big!” (Riverside, 1960), concepita e realizzata dal sempre presente Ken Deardoff, ha solo valore rafforzativo. Realmente grande, in quello che sarà un infinito ingrandimento. La musica invero, per quanto grandiosa, non trova spazio nella spiegazione grafica. O meglio la trova ma nel senso egocentristico, non di stile, non di modus musicale.
Ci prova la Blue Note e il solito Francis Wolff – fotografo e fondatore – per “The Ultimate” Elvin Jones (Blue Note, 1969). La ripetizione dell’immagine del batterista, con cambi di inclinazione e cromia, potrebbe essere vista come un tentativo di dare un’immagine di musica avanguardistica, quasi futuristica. Come è di fatto, con il suo Post-Bop sincopato dal sapore però classico, legato indissolubilmente a quello che al primo ascolto cataloghiamo chiaramente come Jazz; nel 1969 uscì anche “In a Silent Way” (Columbia, 1969) di Miles Davis, già di approccio più ostico che incontenibilmente prendeva le distanze dal passato, creando una “via” nuova per il Jazz. Quindi anche in questo caso, per Wolff il tentativo è puramente indicativo di cosa ci aspetta a livello “superficiale”, stilistico se vogliamo, non certo di cosa realmente suonerà la band di Elvin Jones.
Ed è la volta della CBS/Sony tre anni dopo, con il maestoso doppio LP, “Live in Tokyo” (CBS/Sony, 1969) dei Weather Report. Come nel caso di Jones, ma di gran lunga più efficace, la ripetizione dei “quattro” è disorientante come la musica suonata, ma ancora puramente suggestionante più che esplicativa.
Saltando due decadi in avanti, nel 1989 esce “Unit Structure” di Cecil Taylor (Blue Note, 1989). Probabilmente la più riuscita delle precedenti, con continue esplosioni di colore (la musica), cambi direzionali frenetici, disorientanti come disorientano i quindici ritratti identici di Taylor, con colori differenti, tra negativo e positivo, posti in maniera, parrebbe, casuale; come la musica che, giudicandola in maniera approssimativa sembrerebbe (casuale), non lo è affatto.
Curioso è invero che la seconda e ultima traccia, “To John”, sia tutt’altro che ripetitiva. E se John fosse Coltrane… allora il chaos espresso da Sanders è la cosa che più e meglio descrive il tormentato tenor-sassofonista scomparso nel 1965.
Love Is Everywhere.
A Love Supreme, indeed.
Alberto Massaccesi