Anno d’uscita: 2017
Regia: Andrey Zvyagintsev

Una coppia dell’odierna Russia è in procinto di divorziare. Il figlio dodicenne, divenuto un problema ed un ostacolo alla realizzazione delle vite dei rispettivi genitori, decide un giorno di fuggire di casa, scomparendo nel nulla.

Per l’ultimo film dell’autore russo Andrey Zvyagintsev sono state ideate diverse locandine promozionali a mano a mano che la pellicola approdava nei cinema di mezzo mondo, arrivando anche in Italia.

Quelle più evocative, a nostro parere in grado di catalizzare lo sguardo e al contempo stabilire un dialogo mentale con lo spettatore, sono i due manifesti originali made in Russia che, seppur differenti fra loro per grafica e contenuto, si rivelano entrambi capaci di parlarci limpidamente del film e orientarci sul ventaglio di emozioni (e loro gestione) che ritroviamo nella narrazione.

L’affiche è di notevole impatto, tanto sul piano emotivo quanto su quello visivo.

Il film in questione è calato nella nostra contemporaneità, la Russia è più vicina di quanto siamo portati a pensare e, perciò, nell’inseguire il sogno di modernizzazione ad immagine e somiglianza dell’Occidente, anche per quel che concerne il lavoro sulla grafica, non può che prediligere un artwork in stile occidentale: l’adesione agli standard visivi ad alta definizione, la confezione finale, inclusa la scelta di ritrarre una posa che è espressione di uno stato emotivo universalmente riconoscibile/comprensibile, smarcano la locandina (e in parte il film stesso) dal proprio territorio di provenienza, sebbene il dettaglio grafico del titolo e delle note sovraimpresse (in alfabeto cirillico) ne certificano all’impronta l’appartenenza ad una precisa nazione ed area geografica. Senza, sarebbe oggettivamente più complicato stabilirne la provenienza.

Il soggetto raffigurato è una donna, giovane, quasi certamente sposata per via della fede nuziale che porta all’anulare destro (altro dettaglio che c’informa, seppur in maniera non subito leggibile, sulle sue origini sovietiche). In Russia, la chiesa ortodossa ha ereditato dai Romani (con l’Impero Romano d’Oriente e la cristianizzazione di quei territori) l’usanza di indossare gli anelli di nozze alla mano destra poiché si considerava la mano sinistra di cattivo auspicio, in grado di compromettere l’unione coniugale.

Ed è lecito pensare che la donna possa essere, oltre che sposa, anche madre. Notiamo la vera al dito perché le sue mani sono posate sul viso come per nasconderlo e proteggere l’espressione del volto sottostante. Che sia di sofferenza è altamente probabile. L’istantanea lascia parlare il linguaggio del corpo, e determinati gesti puramente istintivi non sollevano troppi dubbi a riguardo. E, in fondo, lo dice l’opera stessa, quel “Senza Amore” che la intitola e l’abisso di dolore che tali parole inevitabilmente spalancano. Forse, una condizione di forte disagio affettivo in ambito familiare che il corpo, incapace di trattenere, fa esplodere all’esterno invadendo il volto al punto da indurre a coprirlo per una sorta di pudore subentrato ad un’emotività (squisitamente umana) espressa senza filtri. Forse, una cattiva notizia che ha raggiunto la donna, magari legata alla sorte della propria prole (come gli accenni di trama suggeriscono) che renderebbe il gesto leggibile come rifiuto della spiacevole realtà in corso e il voler inconsciamente bloccarla, allontanarla da sé.  Nel film una scena di grande intensità emotiva riferisce il medesimo gesto delle mani portate al viso.
La donna si trova dietro un vetro, rigato dalla pioggia. L’acqua scorre all’interno, proprio dove lei è collocata. La superficie in vetro pare contenerla dentro una gabbia trasparente delle cui reali dimensioni non ci è dato sapere. L’inquadratura, stringendo sulla figura, sfuma i contorni e non permette di visualizzare nient’altro. Riuscendo a vedere solo lei, finiamo per immaginarla sola anche nello spirito. È tempestata dalla pioggia e dal gelo (gli aloni, il colore blu dello sfondo), espressione della sua condizione esistenziale fatta di silente sofferenza e incomunicabilità, forse momentanea forse perenne; tuttavia lo stato d’inerzia in cui versa trasmette prolungata rassegnazione e prostrazione insieme all’impossibilità di venir fuori dal suo stallo emotivo.

Vien da pensare che le ragioni a monte riguardo il soggetto scelto per il manifesto possano risiedere nella volontà di creare un “trait d’union” con un specifico momento del film e, al tempo stesso, di rendere il manifesto stesso il suo perfetto contraltare drammatico: nella pellicola la donna protagonista è appoggiata alla vetrata di casa intenta a fare l’amore col proprio amante mentre fuori imperversa il rigido inverno russo. Come a dire: un breve momento d’estasi, di intesa e complicità a due, di calore umano contro uno prolungato, perpetuo, di dolore. E di raggelata solitudine nel vivere, nel portarsi dentro questo dolore.
Ma coprirsi il volto con le mani potrebbe significare, altresì, il modo più semplice dettato dall’istinto per allontanare da sé il giudizio che si ha di se stessi, per non vedere riflessa la propria immagine quando di se stessi non si possiede una buona considerazione. La superficie di vetro che la donna ha davanti potrebbe, perciò, svolgere la funzione di impietoso specchio della coscienza. Rimandare al mittente, senza la minima indulgenza, l’essenza di quello che si è e si è diventati.

Inoltre, il vetro che la rinchiude funge da schermo (cinematografico) attraverso cui assistiamo al compiersi chirurgico della tragedia familiare, conducendoci a riconoscere nel dolore della donna il nostro dolore.

E nello scandagliare la sua anima, nell’empatizzare con lei, ogni differenza di carattere geografico-storico-socio-culturale tra Oriente ed Occidente non ha più ragion d’essere.

Come la locandina vuole dimostrare.
Antonella Liguori

Articolo correlato:

“Loveless”: dalla Russia senza amore – Seconda parte