Anno d’uscita: 1999
Regia: David Fincher
“Fight Club”, diretto da David Fincher e interpretato da Brad Pitt, Edward Norton e Helena Bonham Carter è un film del 1999 che riprende più o meno fedelmente la trama del romanzo di Chuck Palaniuk; dove nichilismo, anarchia, rabbia e cinismo si fondono a creare un intreccio dall’aspetto splatter ma ricco di significati profondi. Al contrario di quello che ci si aspetterebbe da una pellicola cosi conosciuta, inizialmente non ebbe un buon successo commerciale nella sua proposta nelle sale cinematografiche, ma quando fu destinato al mercato della grande distribuzione “home video” divenne un vero e proprio oggetto di culto nell’ambiente underground, per generazioni di adolescenti e non.
Di “Fight Club” abbiamo un’infinità di immagini proposte come locandina, tutte mirate a coinvolgere il pubblico in maniera più o meno diretta; e come le differenze culturali ci distinguono nella nostra biodiversità, anche le proposte pubblicitarie vengono studiate e strutturate ad hoc in funzione di questa nuova esigenza; ed è così che in Italia troviamo una locandina di classica presentazione cinematografica mentre in America ne troviamo un’altra, con un format più accattivante, dove la classica presentazione viene sostituita da una sorta di scena della pellicola stessa:Fondo nero, quattro foto quadrate geometricamente disposte a creare un quadrato più grande; alla base del quale troviamo la componente testuale. Titolo al centro, messaggi mirati ai lati, e sul fondo le informazioni che possono passare in secondo piano, evidenziate o meno a seconda della loro importanza. Sintetica, diretta e concisa, praticamente la copertina di un libro. All’interno delle quattro foto troviamo i due protagonisti: Tyler Durden (Brad Pitt) e Jack il “Narratore” (Brad Norton).
Tyler è visto di fronte, sorridente, sprezzante, ammaccato, livido ma felice; “libero” da vincoli e giudizi, guarda la camera con la leggerezza di chi ti osserva sicuro di sé, in una risoluzione quasi “schizofrenica” dove pazzia e libertà si legano, diventando una parte dell’altra. Il colletto del giubbino casual color porpora serve a confondere eventuali macchie di sangue e la luce tagliente di lato, che mette in risalto la parte tumefatta del viso, che porta quasi ad indicarci un’unica via d’uscita: “la liberazione dal buio sociale può avvenire solo attraverso ferite e incoscienza”.
Il “Narratore” è posizionato di profilo, volge lo sguardo in camera inclinando il viso “adeguandosi” all’inquadratura. Posato ed ordinato, illuminato in modo equilibrato, conformato all’esigenza, mostra un sorriso più stretto, quasi obbligato. Il colletto bianco della camicia, il viso pulito ci mostrano come l’uomo moderno in giacca e cravatta viva il disagio nel reprimere la rabbia, nell’oppressione consumistica.“Le cose che possedevi ora posseggono te”, e così da carnefici diveniamo vittime, e da vittime scopriamo che solo abbattendo noi stessi potremo risolverci. La rabbia, la sensazione di totale impotenza di fronte una società che non ci rappresenta, ad una politica cosi inesistente, frustrata da una realtà così poco reale, fatta di mobili premontati, di idoli perfettamente impossibili, di ore spese in lavori che odiamo per comprarci “puttanate” che non ci servono ma che non devono mancare si camuffano in un uomo, con sguardo fermo e in doppio petto. Sotto ogni scatto in carattere maiuscolo corsivo troviamo i nomi dei protagonisti ritratti, in bianco per attirarne l’attenzione, dal design maschile per rinforzarne il messaggio, e man mano che scorrono aumentano in illuminazione, quasi ad indicarci una sorta di percorso iniziatico per avere più chiarezza.
Il titolo viene impresso in un sapone, poggiato nel suo contenitore quasi a farne da cornice, e ci lascia intendere che sarà un elemento fondamentale della narrativa del film. I caratteri sembrano scolpiti, di dimensione molto grande, imperativi, e nonostante il rosa femmineo del colore di base, richiama sensazioni decisamente maschili. Il rosa ovviamente esplode in questo fondo nero, ma credo che non sia così difficile immaginarne il motivo. Nonostante lo spazio dedicato al titolo sia minimo, la sua presenza è dominante, divenendo un elemento d’attenzione.Le scritte ai lati del titolo ci raccontano una storia e ci offrono un assaggio di quello che potrà esserci offerto. “dal regista di Seven” ci prepara ad un film intrinseco di violenza psicologica, “combatti per sapere chi sei” invece ci ricorda il sacrificio personale che ognuno di noi deve offrire per ritrovarsi, e cosi il sapone diventa “elemento legante”. Il “sapone” diviene sacrificio umano e mezzo di risoluzione, l’anticonformismo e la guerra a questa società imposta (nel racconto inizialmente il sapone veniva prodotto da grasso umano rubato in cliniche di liposuzione e veniva rivenduto alle stesse donne ricche che si prestavano a tali ritocchi estetici. Dallo stesso sapone ottenuto estraevano glicerina per costruire dinamite fatta in casa che sarebbe servita a rinforzare questa guerra sociale ndr.).
Sotto al titolo ritroviamo nuovamente i nomi degli attori principali come a sottolineare la presenza di Un cast d’eccezione, e la differenza nelle loro dimensioni ci illustra come la componente maschile sia predominante nei confronti di quella femminile in quanto è possibile notare come il nome di Helena Bonham Carter passi in secondo piano non solo per dimensione ma anche per ordine di presentazione. Al di sotto di questo elenco troviamo tutte le informazioni tecniche, compreso il nome del regista, che scritte con caratteri piccoli mostrano la loro discrezione all’interno di una locandina cosi emotivamente ricca, e ci sottolinea l’inutilità di evidenziare altri elementi in quanto l’obiettivo è già stato ampiamente raggiunto.
Tutto in questo poster è stato studiato, la luce e le ombre, i sorrisi e le emozioni nascoste; semplici immagini che sanno sbatterti in faccia il nostro disagio, sincero e senza mezze misure. Sono d’accordo con il protagonista quando dice “La prima regola del Fight Club è non parlare del Fight Club”, c’è il rischio di restare avvinghiati ai nostri disagi repressi e non ci sarebbe mai sufficiente spazio per sentirci sufficientemente liberi. Forse sarà proprio per questo che anche io continuo a far sempre sapone… (https://www.facebook.com/isaponidelgufo/)
Silvio Bellomo
